Da sempre la politica italiana è pronta ad additare come dittatore il leader predominante, nel timore che tenga testa all’organo decisionale per eccellenza: il parlamento. Ma perché il presidenzialismo ci spaventa? Si deve soltanto all’esperienza degli orrori fascisti o c’è qualcosa di connaturato alla natura degli indisciplinati italiani?
L’ascesa di Giorgia Meloni nelle ultime elezioni politiche ha sollevato nell’opinione pubblica i timori per la democrazia e qualcuno ha paventato perfino l’ascesa di un possibile dittatore, questa volta in gonnella. Siamo dinanzi all’eterno ritorno dell’uguale?
Nel corso della storia il Bel Paese ha sperimentato molteplici forme di governo e numerosissimi esperimenti d’amministrazione, marchiati ciascuno ora da una dominazione straniera, ora dall’emergere di questa o quella fazione interna. Eppure, in quasi 3.000 anni di organizzazione politica del territorio, la sfida della leadership al comando è ancora ostinata: governare gli italiani e garantire la loro unità – o quanto meno provarci senza seminare scintille di rivolta e malcontento popolare.
Il parlamento e il dictator
L’umanista Massimo D’Azeglio ben lo sapeva quasi duecento anni fa: prima di fare l’Italia, bisogna fare gli italiani. Ma già prima dei primi parlamentari del Regno d’Italia, la questione impegnava le menti del Senato romano.
I senex (coloro resi saggi dalla senectus, la vecchiaia) erano consapevoli dell’eterogeneità di culture, identità e necessità dei popoli italici riuniti sotto l’effige di Roma, e così la forma di governo che sembrava poter esprimere meglio tali differenze e istante era quella dell’organo assembleare. Il senato, poi parlamento, lo spazio fisico e immateriale al contempo della parola, appunto, del dialogo tra rappresentanti di diversi territori. La materializzazione dell’immateriale concetto di democrazia, diremmo oggi.
Polibio ci ricorda che l’organo assembleare ha avuto molteplici forme: consiglieri del re, oligarchi, rappresentanti del popolo regolarmente eletti… e se l’anaciclosi delle forme di governo influenza la struttura dell’organo politico per eccellenza, ecco che questo in ogni epoca storica e luogo e peculiarità del sistema è accomunato da un unico, ricorrente e irrisolvibile problema: la confusione.
Istanze più o meno urgenti da presentare, correnti (più spesso fazioni) interne che s’azzuffano pur di dire la propria e le lunghe procedure burocratiche da seguire paragrafo per paragrafo. Tutti elementi che rendono da sempre l’organo assembleare un ingranaggio dai ritmi discordi e rumorosi. Gli antichi popoli che vissero la Penisola prima di noi erano ben consci di questo problema, sebbene le loro assemblee non fossero paragonabili alle odierne strutture della democrazia liberale. Attorno al 500 a.C. si attesta la presenza del dictator, il dittatore: un uomo investito di poteri eccezionali in situazioni di emergenza sociale e politica.
Tale figura è a noi più nota grazie agli studi sull’età repubblicana a Roma, dove emerse talvolta questo magistrato con poteri illimitati, nominato dai consoli per far fronte ad una situazione di emergenza eccezionale. Chiaramente, fatta la legge, trovato l’inganno: il generale Silla fu il primo ricordato dai latini per aver approfittato della carica e instaurato un regime del terrore – ma Cesare è certo il dictator per eccellenza.
Profilo del dittatore, da Cesare a Berlusconi
La politica italiana ha da sempre paura di un leader predominante, che dispensi disciplina alla folla di voci, pensieri e interessi di parte che affollano le assemblee legislative.
Di Caio Giulio Cesare conosciamo – oltre che il celeberrimo incipit “Gallia est omnis divisa in partes tres” (De Bello Gallico, Liber I, 1) – l’audace impresa del Rubicone e quel voler superare, dominare un fiume in piena: il senato romano incapace di gestire le pressanti richieste di una popolazione in aumento, una classe politica e sociale corrotta e in declino – i patrizi – e una nuova generazioni di giovani e militari da ricollocare in un sistema economico post-bellico. Aggiungiamo l’inflazione galoppante e siamo abbastanza vicini ai tempi nostri. Cesare era seguito dal popolo perché uomo pragmatico, oltre che icona-pop dei tempi.
Assumendo la carica di dictator, siamo nel 49 a.C., mise in atto delle riforme non indifferenti: allargamento della cittadinanza, rafforzamento delle assemblee popolari, aumento dei dipendenti statali per rafforzare la burocrazia, un rinnovato “piano regolatore” per l’affollata capitale, riorganizzazione dell’esercito e alcune misure di welfare state. Sebbene Cesare non fosse un uomo solo al comando ma, per necessità pratica, facesse affidamento su decine di collaboratori, l’idea di un capo ben riconoscibile da tutti spaventava il parlamento.
Ventitré furono le coltellate che, secondo la tradizione, punirono Cesare per essere stato un leader sopra il parlamento. Eppure, le riforme da lui introdotte vennero mantenute dopo la sua morte e approvate dallo stesso parlamento.
D’altronde, anche Seneca si era scagliato contro l’imperatore Claudio. Il filosofo stoico non accettava l’idea che il potere del Senato fosse drasticamente ridimensionato da un singolo, l’imperatore. E sebbene gli storici ricordano Tiberio Claudio come un buon amministratore, che sulle orme di augusto aveva migliorato la burocrazia imperiale e attuato una serie di forme amministrative e sociali che ebbero un impatto positivo sulla vita dei cittadini, da Seneca venne condannato persino nell’aldilà alla più disumanizzante delle sorti, nella brillante Apokolokyntosis.
Ma, cosa ancor peggiore, affida ai posteri una descrizione dissacrante dell’odiato politico: carente di virtù, fiacco nel corpo quanto nella morale e instupidito da uno stuolo di cattivi consiglieri a cui si affidava rovinando la nazione.
Passando alla storia più recente, alle novelle politiche a noi più vicine, due sono stati i leader politici nostrani che – già prima di Giorgia Meloni – avevano messo in moto la retorica della dittatura: Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi.
Cosa li accomuna? Sono entrambi uomini di centro destra. Per il resto, l’analista attento e lo sporadico consumatore di chiacchiere da bar possono notare al pari stili di leadership completamente diversi, attitudini alle pubbliche relazioni decisamente opposte, confronto con alleati e avversari alquanto divergente nei modi. Due maschere diverse, poi, da presentare alla stampa.
Andreotti ha sempre vestito i panni dell’uomo virtuoso investito dal fardello di guida del paese, onore oneroso a cui ha immolato l’etica per machiavellici fini. Berlusconi è invece il leader della massa per eccellenza: è entrato nei salotti degli italiani con Fininvest, presentandosi ivi come sui cartelli elettorali nella spontanea figura del privato cittadino che contribuisce al benessere dello Stato attraverso l’iniziativa imprenditoriale.
Ancora, Andreotti parlava ai cittadini con sentenze chiare e parole oscure, l’intellettuale impenetrabile nella gentile semplicità del suo presentarsi a tutti, eppure stimatissimo nella solidità che riusciva a trasmettere. Berlusconi è diretto, parla la lingua di tutti, intellettuali e non: “meno tasse per tutti” e “pensioni eque” sono il modello esemplare della sua comunicazione.
Le loro colpe? Essere emersi nella scena politica italiana per un tempo irragionevolmente più lungo del previsto secondo i canoni italiani – che è più o meno pari alla media di durata dei governi – ed essersi accaparrati una fetta importante dell’elettorato (entrambi i partiti di riferimento hanno ottenuto all’apice della loro esperienza tra il 25% e il 40% delle preferenze). Entrambi, infatti, hanno spesso fatto leva sulle proprie risorse politiche per sovrastare l’organo assembleare e prendere decisioni non condivise da tutta Montecitorio.
Ciononostante, il dissenso non è mai stato pubblicamente messo a tacere da questi due leader, né i diritti civili e individuali sono stati negati, e infine, per citare Hannah Arendt, la sfera privata dei cittadini non è stata schiacciata dai dettami di uno Stato fantoccio.
Ebbene, proprio sotto il IV governo Andreotti venne approvata una misura essenziale per la libertà individuale come la legge che legalizzava l’aborto in Italia, sebbene una grossa componente della DC fosse contraria, e i rivali politici di stampo socialista e comunista furono sì osteggiati, ma mai messi a tacere con i bruti mezzi della dittatura.
Lo stesso possiamo dire di Berlusconi, che dal proprio canto è stato ampiamente criticato (e sanzionato dall’UE) per l’accentramento mediatico creato durante i suoi governi dalla compresenza della Rai e Mediaset sotto il suo controllo: nessun meccanismo di controllo alla Grande Fratello (di Orwell!), e nessuna politica del “pensiero unico” perseguita attraverso i media. Le scelte più riprovevoli di Mediaset riguardavano l’intrattenimento sessista, volgare e ostentatamente ignorante di programmi come Tamarreide, Ciao Darwin e simili. A cui siamo sopravvissuti, contro ogni previsione.
Non possiamo omettere invero le nomine arbitrarie, i decreti ministeriali audaci e relazioni internazionali di natura sfaccettata: il leader concentra l’attenzione mediatica su di sé. Superare la confusione di voci, idee e quindi la lentezza del parlamento non significa trovare soluzioni universali e inattaccabili ai problemi degli italiani, ma spesso la rapidità di queste risposte consente di dare respiro ai cittadini sulle preoccupazioni che li attanagliano, delle pezze che non chiudono la crepa ma assorbono la perdita evitando che allaghi gli spazi della democrazia.
In futuro ci sarà un leader?
Sì, dunque, il leader politico è fondamentale per il benessere della democrazia se e solo se può rappresentare una guida solida dell’organo esecutivo, che deve necessariamente rispondere alle istanze dei cittadini mentre il Parlamento è impegnato a legiferare in maniera più efficace, ma con i tempi lunghi della sua natura. Non dimentichiamo che il disordine sociale esplode burrascoso quando i cittadini aspettano troppo a lungo risposte ai propri problemi.
Parliamo di quanto accaduto ai nostri vicini francesi (tra i tanti possibili esempi), non due secoli fa bensì a distanza di appena 60 anni: l’instabilità politica e le rivendicazioni sociali della Francia degli anni ’50 portarono al crollo del sistema repubblicano parlamentare e all’ascesa del semi-presidenzialismo impersonato dal generale De Gaulle nel 1958. Regime del terrore? Repressione dei diritti sociali e delle libertà individuali? No, sinora il presidenzialismo non ha stravolto il ruolo del parlamento né le strutture fondanti della democrazia francese.
Oggi spetta a Giorgia Meloni, probabilmente, incarnare il leader che deve rassicurare i cittadini e le comunità mentre le altre componenti della Repubblica sono a lavoro per governare il Paese: una donna riuscirà a far avverare gli apocalittici scenari di chi ha additato altri per dittatura?
No: la fine dell’esperienza fascista ci ha lasciato in eredità un parlamento, e un capo della Repubblica, con poteri abbastanza forti da evitare che il singolo leader dell’esecutivo possa attuare un golpe.
Piuttosto, interroghiamoci sulle conseguenze del pugnalare il dictator prima ancora di aver visto concludersi la propria esperienza di governo. Da italiani, ci siamo abituati alla crisi politica e all’instabilità decisionale: quanti miliardi di debito pubblico dobbiamo ancora contrarre per capire che senza un’esperienza di governo solida e duratura (nei tempi e modi stabili dalla Costituzione democratica) non abbiamo reali prospettive di ripresa e crescita?
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