Lenocinio, s.m.
Lenocinio. Il termine di oggi, ben noto ai penalisti, ha assunto nei secoli, per mano dei poeti, il compito di descrivere, con toni aulici, situazioni che di aulico avevano ben poco.
Compito del latinismo del resto è questo: infiocchettare con galanteria situazioni che il bon-ton altrimenti non permetterebbe nemmeno di pronunciare.
Non ultimo fu il Vate, che ne utilizzò metaforicamente il termine di base, Lenone, nella sua Tregua in apertura all’Alcyone. Un poema carico della sensualità estiva e panica dei boschi toscani che, avvolto e zittito il Superuomo, lo avrebbero instradato nella conseguente trama versificata:
Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto,
sfamato con le miche del convito,
lungi rauco latrava il suo dispetto;e l’obliquo lenone, imputridito
nel vizio suo, dal lubrico angiporto
con abominio ci segnava a dito.O Dèspota, tu dài questo conforto
al cuor possente, cui l’oltraggio è lode
e assillo di virtù ricever torto.
Lenone è diventato sinonimo di magnaccia, o protettore che dir si voglia, per antonomasia: era infatti un personaggio tipico della commedia latina, il commixtum caeno sterculinum publicum della Persa di Plauto; il villain per eccellenza che nella storia del teatro non troverà mai un momento di redenzione; la maschera che probabilmente ha generato più insulti raffinati di tutte le altre figure del pantheon della musa Plautina.
Tanto forte e radicato divenne la sua figura, pur nelle varie declinazioni che i commediografi seppero dargli, che col tempo il leno divenne per tutti il losco figuro che lucrava sul corpo degli altri nei bordelli.
Lascivia, voluttà, mollezza di virtù. Tutte caratteristiche insite già nell’etimologia del termine e dei suoi derivati.
Lenocinio deriva infatti dal latino LENOCINIUM, che a sua volta deriva da LENO, il lenone. Tutti termini legati forse alla sfera semantica di LENIRE e LENIS, quindi indicati mollezza, dolcezza, arrendevolezza.
Si può avanzare l’ipotesi di una derivazione dalla radice Proto Indo Europea *le-, “rilasciare, lasciar andare”, alla base dei detti LENIRE e LENIS, e quindi della nostra lascivia, ma anche delle proprietà lenitive di alcune creme.
Storicamente in ambito giuridico troviamo l’entrata in scena del lenociniumcome reato riconosciuto sin dal 16 a. C., e lo testimonia la Lex Iulia de adulteriis coercendis fortemente voluta da Augusto per contrastare il malcostume e dissuadere dalla pratica della prostituzione, degli incesti e dell’adulterio. Tutti elementi che minavano la solidità dello Stato e della Società romane dell’epoca.
La pena era di tutto rispetto: relegatio in insulam e confisca dei beni, ma si poteva arrivare anche alla pena di morte.
La gravità del reato agli occhi dello Stato non venne meno nei secoli successivi. Sotto Re Recaredo i Visigoti videro emanare un severissimo decreto che prevedeva la cacciata dalla città con fustigazione per lenoni e meretrici. Sempre lungo il Medioevo il lenocinio rimase tra le colpe punite con pubblica infamia, al pari della bancarotta e della corruzione.
Per i secoli successivi, un quadro articolato ci viene offerto dal Dottor Volgare di Giovanni Battista De Luca, che ne riporta una definizione minuziosamente dettagliata:
‘Lenocinio’, ancorché per le leggi civili anche antiche, e per prima della traslazione dell’Imperio da Roma a Costantinopoli, questo delitto di mediazione o di mediatore delli delitti carnali, che volgarmente in Italia diciamo di ruffiani e di ruffianesimo, sia stimato grave e degno di rigoroso gastigo, anche della deportazione, o della condanna al metallo;
e le leggi più moderne fatte da Giustiniano in Costantinopoli v’impongano la pena ordinaria della vita; e per conseguenza i dottori comunemente concordino che sia un delitto gravissimo e di male conseguenze, come molto pregiudiziale alla repubblica: osservando però che non sia in uso quest’ultima pena più rigorosa della vita, sicché la materia non abbia una regola certa ed uniforme, ma che sia una pena arbitraria, maggiore o minore secondo l’uso de’ paesi e le circostanze particolari di ciascun caso: anzi che in diversi principati ci siano leggi particolari che puniscono questo delitto, conforme in questo principato insegna la bolla di Sisto quinto, e nel Regno di Napoli insegnano quelle leggi particolari: nondimeno o sia che in quei tempi si usasse quel pubblico lenocinio, che da molti si presuppone, cioè che vi fossero delle persone, le quali pubblicamente e principalmente facessero questo mestiere de’ ridotti nelle proprie case delle fanciulle e de’ fanciulli per i stupri e per le sodomie, o veramente per la mediazione con altri, stando a casa propria;
o sia che oggidì la pratica, almeno nella nostra Italia, ha sbandita questa formale pubblicità; o veramente sia per i rispetti accennati di sopra in occasione di parlare dell’incesto e dell’adulterio, cioè che le regole prudenziali e del buon governo proibiscono il procedere in sì fatto delitto per inquisizione, per non vituperare le case, e per non cagionare disordini maggiori nelle vendette private, per cose le quali per altro, ancorché si sappiano, si dissimulano e si mostra di non saperle; quindi segue che molto di raro si sentono in pratica le cause, ed i gastighi per questo delitto: eccetto quando il caso portasse in giudizio qualche causa di stupro, o di sodomia, ovvero di adulterio, ad accusa del marito;
oppure un altro delitto originato dalla carnalità seguita o tentata, secondo i diversi costumi de paesi e de popoli più o meno risentiti in questa materia. Ed in questi casi, praticandosi per lo più questo mestiere da vili vecchiarelle, si sogliono a terrore degli al tri punire con la frusta, o coll’esilio; mentre nel rimanente dappertutto vi sono di questi stromenti, i quali già si sanno, sicché sarebbe facile la prova, ma per non esservi la totale pubblicità, e per i rispetti suddetti, non usandosi oggidì quelle accuse, le quali per zelo pubblico, e senza pregiudizio della riputazione, anzi meritoriamente si usavano anticamente, per quel che si è accennato di sopra nel capitolo secondo, ne segue che prudentemente ciò si dissimuli, e particolarmente in questa città di Roma.
Attesoché per esservi una corte ecclesiastica, con un gran numero di persone celibi, e di giovani nobili e ricchi, quindi segue che per l’umana fragilità non sia possibile impedire qualche inconveniente, che non conviene mettere in pubblicità: in vigilandosi diligentemente che non seguano quei ridotti, i quali anticamente erano in uso, ed alle volte con altri motivi dandosi l’esilio ad alcune di queste vecchiarelle, e ad altre vili persone, le quali fossero troppo diffamate. Che però hanno quasi dell’ideale le tante questioni, che sopra ciò disputano i criminalisti, quando si debba dire vero lenocinio, e se basti che ciò sia seguito per una volta sola, o veramente che vi sia necessaria la frequenza degli atti, almeno di tre: ed ancora se si debba dire punibile tal delitto, quando il ruffianesmo segua per amorevolezza e senza denaro, quasi che si debba dire solamente tale nel caso che si faccia per mestiere, e con la mercede: con altre simili questioni, delle quali si stima incongruo trattare in quest’opera, come in materia poco adattata alla pratica.
È ben considerabile per la pratica la differenza, la quale in ciò viene fatta tra quel lenocinio, che si commetta da persone totalmente estranee, le quali facciano questo mestiere della mediazione delle carnalità, che diciamo di ruffiane, o di ruffiani, e quel lenocinio il quale si commetta dai mariti con l’introduzione degli uomini alle loro mogli, o veramente con la tolleranza e la permissione positiva, che volgarmente diciamo becchi contenti: ed anche nei padri e nelle madri, che prostituiscano le proprie figlie, che volgarmente diciamo venderle, e particolarmente per la prima volta essendo zittelle, le prostituiscano allo stupro; mentre questo è un delitto di conseguenza, per essere l’introduzione nella vita disonesta e nel puttanesmo.
Che però anche in termine di ragion comune, appresso i criminalisti questa specie di lenocinio viene stimata degna di maggior gastigo, e la suddetta bolla di Sisto V vi mette la pena ordinaria della vita.
Tuttavia (conforme si è detto) rare volte occorre il caso, che queste cose si mettano in giudizio, ma occorrendo non vi si può dare una regola certa e generale, applicabile a tutti i casi, ed a tutti i paesi, dipendendo il tutto delle circostanze particolari, e dalle usanze, o dai costumi: anzi negli stessi paesi, dalla differenza tra le città grandi ed i luoghi piccoli, nei quali più facilmente segua la pubblicità, e si renda maggiore lo scandalo; che però vi si deve camminare con qualche maggior vigilanza e rigore.
Il reato passò sia attraverso il Codice Napoleonico che quello del Regno di Sardegna del 1859, confluendo quindi nello Zanardelli del 1889 e nel codice Rocco del 1931.
Quest’ultimo, con Regio Decreto del 18 giugno dello stesso anno, sancì regole ferree per regolamentare la prostituzione, predisponendo luoghi (i “locali di meretricio” o comunque locali chiusi e tollerati secondo le regole di buoncostume ed igiene), orari e modalità: con orari ben stabiliti, l’esercizio del mattino aveva luogo dalle 9 alle 13, per riprendere quindi dalle 15.30 e non concludersi prima della mezzanotte.
Sappiamo che ogni fanciulla esercente aveva intorno alle quaranta transazioni giornaliere, tutte pagate in anticipo.
Passata la guerra, entrò in gioco la Legge Merlin che avrebbe stravolto il panorama sin lì delineato e disegnato. Il resto è storia.
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Bibliografia
Lenocinio, Lenone in GDLI, Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET
Lenocinio, Lenone in Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, a c. di O. Pianigiani, Polaris, 1993
Lenocinium, in Dizionario Storico-Giuridico Romano, edizioni Simone (https://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?id=1644&action=view&dizionario=3)
Leno, Lenonis, in Dictionnaire Etymologique De La Langue Latine, Ernout – Meillet, Paris, Klincksieck, 2001
Lenocinio, in Il dottor volgare, overo Il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale, e municipale, nelle cose piu ricevute in pratica; moralizato in lingua italiana per istruzione, e comodità maggiore di questa provincia. Da Gio. Battista De Luca, Roma, Giuseppe Corvo, 1673
Lollini, Silvio, Sul reato di Lenocinio, in Rivista di diritto penale e Sociologia Criminale, Anno III,1902, Pisa, Emilio Pacini, 1902
Gabriele D’Annunzio, Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, Libro III, ALCIONE. Milano, Fratelli Treves Editori, 1908