Quella del feticismo è la storia straordinaria di una parola antica passata da una cultura all’altra, dal XV secolo a oggi, per farsi stravolgere nel significato.
Se pensate che questo articolo possa parlare di manette di pelo e piedi smaltati allora urge appagare la vostra curiosità con letture altrettanto dilettevoli.
La storia della parola feticismo è articolata e interessante, infatti risale al XV secolo e deriva dalla lingua portoghese tardo medioevale. I portoghesi hanno coniato i termini “fetish” e “feticismo” come risultato dell’incontro europeo con le società africane durante i viaggi d’esplorazione nel 1400.
Gli esploratori europei notarono infatti la diffusa pratica di impiegare oggetti materiali al fine di influenzare il comportamento di un individuo, o indurre un cambiamento nella sua condizione. L’impatto emozionale di queste pratiche feticiste fa sì che gli oggetti diventino vivi, poiché acquisiscono il potere di influenzare il pensiero dell’uomo e dunque le sue azioni.
Tradizionali cerimonie che coinvolgono feticci persistono al presente nelle società africane e caraibiche, specialmente nelle comunità legate al culto voodoo. Ma il termine è stato destinato a diffondersi un po’ ovunque nel mondo, e ha poi trovato ampia diffusione in campo economico e psicologico.
Nel XIX secolo Karl Marx introdusse il concetto di feticismo della merce come importante componente del capitalismo. Tale concetto è ancora oggi centrale nelle correnti post-marxiste, e descrive il potere degli oggetti come forza produttrice, che al di là del mero valore economico di un bene – il prezzo di scambio – apporta al consumatore un valore immateriale poiché capace di simboleggiare valori, significati e idee legate alla sfera persona dell’individuo. Così, una borsa in pelle artigianale è sinonimo del buon gusto di chi la indossa, mentre mangiare in un ristorante asiatico per un occidentale è sinonimo di mentalità aperta, cosmopolitismo e interesse per il diverso.
L’antropologo Michael Taussig racconta ne Il Diavolo e il feticismo della merce (1980), di una comunità di minatori boliviani impiegati in una miniera di stagno, che elaborando un misto di folklore e dottrina cristiana crearono una rappresentazione della dura vita in miniera come del diavolo in persona proprietario della miniera stessa. Per
proteggersi dai pericoli delle miniere, i minatori hanno adattato sacrifici rituali presi dal mondo dell’agricoltura alla loro nuova situazione, cercando di placare il diavolo-proprietario con doni e cerimonie – alcune delle quali prevedono il masticare cocaina insieme.
Dal capitalismo al sesso, Sigmund Freud rese famoso il termine feticismo per descrivere una forma di parafilia, in cui meta del desiderio è un oggetto inanimato o una parte specifica del corpo umano, che invero diventa viva al punto da indurre una reazione psico-fisica nell’individuo.
Di feticismo si è parlato anche tra i giuristi di primo Novecento in Italia, in particolare dalle nostre ricerche è emersa una vicenda curiosa sotto la lente della Cassazione di Roma. Era il 1900, e nel piccolo Borgocollefegato, in provincia di Rieti, un tale di nome Marco Rosati aveva sparato una fucilata contro la statua di un santo, il quale non aveva esaudito le sue preghiere di guarire la moglie epilettica, accompagnandola con parole di sfida. L’imputato era stato condannato dal Tribunale dell’Aquila per vilipendio della religione, ma lui era ricorso in Cassazione perché secondo lui quello era un atto di feticismo, non di disprezzo, verso l’immagine sacra: come se appunto essa, essendo viva, avesse potuto soffrire per aver ignorato il credente. La Cassazione ritiene alquanto contraddittoria l’affermazione, visto che il feticismo è adorazione.
E così, la storia del linguaggio è straordinaria, e ci consegna una parola che dagli antichi riti esoterici delle comunità africane oggi riconduciamo a frustini borchiati. Non siamo forse creature affascinanti?
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