Indistinte grida di gioia s’innalzarono dalla folla esaltata al grido di “viva la Nazione! viva la Repubblica!” mentre alcuni colpi d’artiglieria segnalavano alla capitale l’avvenuta esecuzione. Il corpo di Luigi Capeto venne poi trasferito nel Cimitero della Madeleine e tumulato in una fossa anonima di dodici piedi di profondità.
Così terminava il 21 gennaio 1793 l’esistenza terrena dell’ultimo sovrano assoluto di Francia.
La condanna a morte di Luigi XVI ha segnato lo spartiacque tra l’epoca della monarchia costituzionale inaugurata nel 1791 e la nascita della Prima Repubblica francese.
Fin dal 1789 risultò evidente che il sovrano fosse restio ad accettare il sovvertimento dell’ordine costituito che si era appena verificato.
La condotta ambigua che egli tenne, il suo tentativo di fuga, le minacce provenienti delle potenze straniere e la scarsa popolarità di Maria Antonietta contribuirono a collocare il monarca in una posizione di precarietà, ma fu l’insurrezione delle Tuileries (10 agosto 1792) a rappresentare il punto di non ritorno per la monarchia. A seguito di questo evento il re fu infatti condotto presso il Palais de Luxembourg e messo sotto la protezione dell’Assemblea Nazionale, la quale, poco dopo, lo privò di ogni potere esecutivo e dispose l’imprigionamento dell’intera famiglia reale. Circa un mese dopo, la Convenzione Nazionale, eletta per formare una nuova costituzione, proclamò ufficialmente la Repubblica (21 settembre).
Questo articolo intende ricostruire le tappe principali del traumatico giudizio a cui il sovrano fu sottoposto, che ha rappresentato una sconfessione dei concetti illuministi sui quali la Rivoluzione aveva preteso di fondarsi, per piegarsi alle drammatiche esigenze politiche del momento.
Il processo al re
Sebbene sia difficile individuare il momento esatto in cui venne presa la decisione formale di sottoporre il re a processo, già nel corso dei disordini alle Tuileries l’Assemblea Nazionale aveva ordinato il preventivo sequestro dei documenti raccolti dagli assalitori presso la residenza parigina dei sovrani. È quindi possibile dire che l’istruttoria del processo sia iniziata già prima della consapevole decisione di intraprenderlo: una singolarità che avrà delle pesanti conseguenze sulla conduzione del giudizio e sulla difesa del re.
Furono diverse le commissioni incaricate di raccogliere elementi di prova contro Luigi XVI. Le risultanze delle loro attività confluirono in alcune relazioni presentate dinnanzi all’Assemblea Nazionale e alla Convenzione Nazionale.
Va detto che tali rapporti, seppur diversi tra loro dal punto di vista stilistico e contenutistico, hanno in comune il fatto di essere piuttosto vaghi e parziali, proponendo un’interpretazione faziosa delle fonti documentali con uno stile declamatorio e iperbolico. Ciò emerge bene analizzando i principali:
Il rapporto Gohier, presentato in una delle ultime sedute dell’Assemblea Nazionale (16 settembre), fondava le proprie argomentazioni su documenti frammentari e non idonei a presentare una narrazione fattuale coerente. In questo atto si parlava genericamente “di un vasto piano di congiure” nonché “dei diversi complotti […] contro la libertà pubblica” e lo stesso relatore fu costretto ad ammettere che “una grande parte delle prove raccolte non accusano che dei semplici impiegati e resta incerto se essi agirono o meno in nome e per conto del re”.
Dal rapporto Valazé, il primo presentato dinnanzi alla Convenzione Nazionale (6 novembre), emergeva chiaramente la debolezza dell’impianto accusatorio. Lo stesso relatore fu obbligato a riconoscere la lacunosità dei risultati definendo “molto imperfetto” il contenuto del dossier.
Il rapporto Mailhe (7 novembre) cercò invece di rispondere alla questione preliminare sulla processabilità del re, concludendo per una risposta affermativa.
Dopo la scoperta dell’armadio di ferro (20 novembre 1792), un armadio dove il re teneva nascosta documentazione segreta e compromettente, la posizione del sovrano si era aggravata. La Convenzione Nazionale aveva pertanto deciso di incaricare un’altra commissione per arricchire l’atto di accusa (9 dicembre 1792). Frutto di questa commissione fu il rapporto Lindet (10 dicembre), redatto in appena ventiquattr’ore, che conteneva una lunga elencazione di fatti storici, dall’inaugurazione degli Stati Generali (5 maggio 1789) sino all’insurrezione delle Tuileries (10 agosto 1792), il cui obiettivo era quello di evidenziare la mala fede del re nei suoi rapporti con le istituzioni rivoluzionarie e screditarne ulteriormente la persona.
Le discussioni assembleari
Dopo la presentazione dei predetti rapporti cominciò la discussione sulla sorte dell’ex re, che si protrasse dal 13 novembre sino all’11 dicembre 1792. Durante queste settimane, numerosi deputati si alternarono alla tribuna manifestando il proprio pensiero sulla questione. Tra i primi ad intervenire vi furono Morisson (girondino) e Saint-Just (montagnardo), il cui dibattito si configurò come uno scontro filosofico tra due logiche opposte e inconciliabili tra loro. Morisson si richiamava ai princìpi e alle norme dell’ordinamento giuridico, alle disposizioni e alle garanzie sancite nella Dichiarazione dei Diritti del 1789, nella Costituzione e nel Codice Penale del 1791. Secondo Morisson l’ex re non avrebbe potuto essere giudicato, perché l’inviolabilità della sua persona era sancita dalla Costituzione; inoltre come egli osservò: “consultiamo freddamente il nostro codice penale e questo non contiene alcuna disposizione che possa essere applicata a Luigi XVI […] perché al tempo dei suoi crimini esisteva una legge positiva che poneva un’eccezione in suo favore, sto parlando della Costituzione”.
Saint-Just, all’opposto, contestava tali ragionamenti affermando la necessità di punire senza indugio il sovrano con la pena capitale. Per i montagnardi infatti Luigi XVI doveva essere condannato a morte senza garanzie o formalità e la sua punizione doveva configurarsi come una “vendetta pubblica” (Robespierre).
Anche secondo altri deputati (come Nioche e Condorcet) Luigi XVI doveva essere giudicato, ma, a differenza dei montagnardi, sostennero la necessità di rispettare le debite garanzie processuali.
Quando l’assemblea si era ormai dimostrata risoluta nel voler comunque celebrare un processo contro il sovrano, i montagnardi ribadirono la necessità di procedere celermente, criticando le posizioni dei “miserabili formalisti” (Lequinio) e rifiutando il rispetto delle procedure, bollate come “un dedalo di cavilli inutili e ridicoli” (Robespierre).
La non opportunità di condannare il sovrano a morte fu fortemente sostenuta dai girondini, convinti che questa scelta avrebbe screditato all’estero la Repubblica e turbato l’opinione pubblica. I montagnardi, all’opposto, ritenevano che Luigi XVI dovesse patire l’estremo supplizio per poter cementare le neonate istituzioni repubblicane. La morte del re doveva coincidere con “la morte della monarchia” (Barbaroux) perché solo “nella tomba del tiranno […] saranno sepolti tutti gli odi, tutte le rivalità” (Saint-André).
I due schieramenti si scontrarono anche sul tema dell’organo legittimato a giudicare l’ex re. Secondo i montagnardi la Convezione Nazionale, in quanto organo rappresentativo della Nazione, era l’unico idoneo a pronunciarsi sul suo destino. I girondini sostenevano all’opposto che la Convenzione dovesse essere esclusa, dato che era stata eletta solo “per fare una nuova Costituzione, nuove leggi regolamentari e infine per condurre le redini del governo nella maniera più vantaggiosa possibile” (Morisson).
Queste contrapposizioni caratterizzarono tutto il processo. Anche nella fase delle discussioni finali emerse questa polarizzazione: da un lato i girondini che, per cercare di salvare il re, sostennero la necessità di fare appello al popolo e di sospendere l’esecuzione del giudizio, dall’altro i montagnardi che contrastarono queste proposte, riuscendo alla fine a prevalere.
L’interrogatorio e la difesa del re
Luigi XVI, prigioniero da quattro mesi e privo di ogni contatto con il mondo esterno, non fu previamente informato del fatto che sarebbe stato interrogato: lo scoprì solo la mattina dell’11 dicembre quando venne prelevato dalla Torre del Tempio e condotto direttamente presso la Salle du Manège, per rispondere alle domande del presidente Barère. L’assemblea aveva deciso all’ultimo di impostare l’interrogatorio sul complesso rapporto Lindet: così le domande poste all’imputato risultarono lunghe, contorte e riferite a fatti lontani nel tempo. Per tali ragioni non sempre il sovrano riuscì a rispondervi compiutamente e fu anche questo atteggiamento a convincere molti deputati della sua colpevolezza.
Gli avvocati del re (De Sèze, Tronchet, Malesherbes) ebbero a disposizione solo dieci giorni per preparare la difesa. Il carico di lavoro era enorme: dovevano leggere i numerosi documenti accusatori che venivano loro disordinatamente consegnati di giorno in giorno e nel frattempo conferire con il loro assistito. Nonostante le strette tempistiche e le difficoltà organizzative, l’operato dei tre avvocati risultò eccellente: criticarono in maniera incisiva le modalità con cui il processo era stato condotto, il cumulo di funzioni, le modalità di svolgimento dell’interrogatorio, l’esclusione della prova testimoniale, il mancato rispetto delle garanzie per la difesa, l’inconsistenza del materiale probatorio, la violazione dei princìpi giuridici fondamentali dell’ordinamento e la parzialità dei giudici (celebre la frase pronunciata da De Sèze all’assemblea: “cerco tra voi dei giudici e non vedo che degli accusatori!”).
Le votazioni finali
Dopo le discussioni finali, il 14 gennaio 1793 ebbero inizio le votazioni che si snodarono attraverso quattro appelli nominali. Fu chiesto ai deputati di esprimersi in forma palese e definitiva sulla colpevolezza, sull’eventuale appello al popolo, sulla pena e sulla sospensione dell’esecuzione della sentenza. In questa fase delicata e decisiva, la logica rivoluzionaria dei ferventi montagnardi ebbe la meglio sui più moderati girondini. Così il 20 gennaio Luigi XVI fu condannato a morte in quanto “colpevole di cospirazione contro la libertà pubblica e di attentato contro la sicurezza generale dello Stato” e vennero rigettati sia l’appello al popolo, sia la sospensione dell’esecuzione della sentenza.
L’esecuzione di Luigi XVI
La Convenzione Nazionale aveva decretato che l’esecuzione dovesse avvenire entro ventiquattro ore. Luigi XVI aveva chiesto una proroga di tre giorni per potersi preparare a comparire alla presenza di Dio. Questa richiesta gli fu negata mentre gli venne concesso di incontrare la sua famiglia e di chiamare ad assisterlo negli ultimi momenti alcuni ministri di culto.
La mattina del 21 gennaio 1793 presso la Torre del Tempio, Luigi XVI riceveva il viatico dalle mani dell’abate de Fermon durante la celebrazione dell’ultima messa (autorizzata dalla municipalità) per poi essere condotto in Place de la Révolution tramite una carrozza scortata da numerosi gendarmi a cavallo. Durante gli ultimi istanti di vita, Luigi XVI mantenne un nobile contegno, una placidità d’animo ed una fermezza che stupì e inquietò addirittura il boia e i suoi assistenti. Uno di questi al termine dell’esecuzione, prendendo per i capelli la testa insanguinata del re dalla cesta, la presentò al popolo. Indistinte grida di gioia s’innalzarono dalla folla esaltata al grido di “viva la Nazione! viva la Repubblica!” mentre alcuni colpi d’artiglieria segnalavano alla capitale l’avvenuta esecuzione. Il corpo di Luigi Capeto venne poi trasferito nel Cimitero della Madeleine e tumulato in una fossa anonima di dodici piedi di profondità.
Così terminava l’esistenza terrena dell’ultimo sovrano assoluto di Francia.
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