La cultura greca ha avuto una grande influenza in ogni ambito del nostro stare al mondo: primo fra tutti il diritto. Ve ne avevamo parlato in un articolo sulla filosofia greca in rapporto col diritto comparato (potete recuperarlo qui). Riprendendo il discorso da qui, stavolta approfondiamo lo sviluppo della dottrina giuridica romana, che prende proprio le mosse dall’idea greca di giustizia e dai fondamentali precetti della filosofia stoica. Proveremo così a mostrarvi le fondamenta “scientifiche” del diritto comparato.
Se si vuole mettere in chiaro la connessione tra filosofia greca e giurisprudenza romana, occorre riallacciarsi alla dottrina degli Stoici. Il pensatore che cercò di unire queste due correnti spirituali fu Cicerone, che si rifece proprio alla dottrina stoica nel fissare le fondamenta filosofiche della sua dottrina dello Stato e del diritto.
L’idea di giustizia nella filosofia greca era stata posta tra due poli (per approfondire rimando all’articolo precedente): il crescente disvalore dell’infinità del mondo e il passaggio in primo piano dell’uomo come essere dotato di autocoscienza (termine moderno non appropriato, dovremmo parlare di psychè-anima) e di aspirazioni morali. Perciò Cicerone non pone l’idea di giustizia in relazione a un’infinità, ma la considera una posizione interiore propria dell’uomo. Questa posizione significa sì per l’uomo la connessione con il “tutto”, ma significa anche una certa separazione rispetto all’universo circostante e rappresenta la base per la configurazione dell’imprescindibile diritto soggettivo umano.
Ma questi eterni diritti dell’uomo spettano non a questo o a quell’uomo, non ai Greci in opposizione ai barbari, ma semplicemente a ogni uomo, all’uomo come tale.
In base all’esigenza della giustizia, la natura di tutti gli uomini appare uguale e identica e di conseguenza diventa anche improprio il parlare della perfezione umana basata sull’idea di giustizia. Per Cicerone la differenza tra la natura dell’uomo e la natura degli uomini svanisce, e in ogni uomo la natura è presupposta come realizzata così perfettamente che il riconoscimento del diritto naturale come diritto richiesto dall’idea è fondato e giustificato.
Il terzo momento dell’esigenza a cui aspira Cicerone, e che le è al tempo stesso di sostegno, riguarda la collocazione dell’idea di Stato nell’opposizione tra l’uomo e il mondo.
Certamente non si tratta con ciò di introdurre lo Stato empirico, che per i Romani è la fonte principale del diritto positivo, nella struttura dell’idea greca di giustizia. Ma poiché l’idea assoluta dello Stato si era mostrata in Aristotele non del tutto intollerante di un contatto con lo Stato empirico, se non un incontro immediato, almeno un avvicinamento rispetto al positivismo romano era possibile. Così a questo sviluppo spirituale dell’idea di giustizia dei Greci si associava una proprietà del positivismo giuridico dei Romani, agevolando efficacemente l’avvicinamento tra di loro.
La filosofia greca e l’idea di giustizia, nella loro più semplice formulazione, sono manifestamente indirizzate all’idealismo e sono metodologicamente fondate sull’intuizione dell’essenza; ciò si vede soprattutto nella dottrina platonica, che ne rappresenta il culmine.
Secondo Platone tra l’idea e l’empiria, tra la connessione essenziale e la connessione causale, c’è un abisso invalicabile: chi vuole partecipare alle idee deve superare l’empiria, poiché dall’empiria non si dà alcuna possibilità di assurgere alle idee e di congiungersi immediatamente con esse. Rispetto alle idee il positivismo giuridico romano, e in ispecie lo jus civile in cui esso si accentra, deve essere considerato come pura empiria. Esso pone (fatta astrazione dagli universali riferimenti alla Divinità, propri di tutti i diritti primitivi) il suo fondamento esclusivamente nella connessione causale e di mezzo a fine della realtà empirica che lo comprende del tutto.
È però caratteristico di questo empirismo che se esso non presuppone affatto il riferimento ideale, nondimeno non lo esclude, anzi è adatto a aprirsi a esso e ad accoglierlo. Mentre per la concezione greca il principio di diritto era superiore a ogni legislazione positiva, i giuristi romani cercavano di scoprire la più alta verità giuridica interiormente allo stesso diritto positivo e di ritrovare lo jus naturale nel diritto positivo già dato. Ma la dotta giurisprudenza romana non esitò, pur nel suo empirismo giuridico, a mettere il diritto in connessione con l’universo e con la natura.
Così Marciano, che aderiva particolarmente alla filosofia stoica, tracciò una linea che dal diritto positivo sboccava nell’ordine dell’universo, con la sua dottrina di quella lex communis che egli indicava come divinarum et humanarum rerum regina. Ma anche là dove questa linea non potrà esser seguita con chiarezza e precisione, il giurista formato alla filosofia cercherà di aprire al suo positivismo giuridico la via a una sistemazione in termini assoluti, ponendo il diritto in connessione con la “natura delle cose”. Si trova infatti presso i giuristi Gaio e Paolo una dottrina della “natura delle cose”, la quale abbraccia sia gli uomini che gli altri viventi e non, e tra questi comprende sia le specie che i generi e infine le relazioni reciproche degli uomini.
È questa una visione che si può giustificare filosoficamente solo in base alla dottrina di una ragione immanente alla natura. In un altro punto ancora la dottrina giuridica romana si rivela come aperta e accessibile all’idealismo greco (termine moderno inappropriato, bisognerebbe parlare di Eidos). Per la giurisprudenza romana il diritto, nel suo preciso valore, è un mezzo per agire sul mondo empirico onde realizzare su di esso una presa di possesso, e per mantenerla. Di quell’interiore armonia, così importante per l’idea greca della giustizia, di quell’interno equilibrio che nasce dalla conoscenza di sé, non c’è traccia nella originaria dottrina romana. Ciò nonostante lo svolgimento del diritto romano non si è affatto chiuso in questo ambito, tutt’altro: ha applicato alla giurisprudenza la definizione della Sophia degli Stoici e la definizione della Sapientia di Cicerone e di Seneca; ha conformato la definizione della iustitia alla dikaiosyne degli Stoici; infine, ha formulato quei celebri praecepla iuris (honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere), di cui il più importante per noi è il precetto dell’honestas.
E c’era forse un altro motivo perché la volontà romana, che prima si teneva in posizione negativa, si mostrasse accessibile a questa interiorizzazione filosofica e a questa eticizzazione del diritto. Il dominio romano del mondo era giunto a poco a poco a una situazione in cui la conservazione della posizione raggiunta accanto all’ampliamento di essa andò acquistando sempre più di importanza. Ma la conservazione di una conquista politica richiede delle concessioni alla volontà dell’avversario soggiogato, le quali trovano la loro espressione nella interiorizzazione e nell’eticizzazione dei rapporti reciproci.
Per il positivismo giuridico romano la relazione tra uomo a uomo era il valore fondamentale della configurazione giuridica: per questo motivo la determinazione giuridica dei rapporti sociali era il punto centrale della sua funzione. Ma la relazione sociale diventa relazione di diritto quando è posta sotto la protezione del diritto e il fondamento della protezione del diritto è l’ordine giuridico obbiettivo, senza il quale la relazione giuridica legalmente protetta è impossibile.
La dottrina giuridica romana ha cercato di porre in accordo l’empiria dello Stato con un elemento di mediazione connesso alla società umana. Così ha sviluppato l’idea della “totale umanità”, che accompagna lo Stato empirico come suo ideale compimento. Questa idea dell’umanità rappresenta la fonte dalla quale il diritto soggettivo dell’uomo riceve la sua realtà.
Secondo Cicerone, la societas civium o societas civitalis deve avere, nonostante la sua centrale importanza e il suo fondamentale valore, una sfera di azione sociale limitata. La sfera di gran lunga più ampia, anzi universalmente amplissima, appartiene alla societas hominum, che corrisponde nella totalità delle sue connessioni alla natura, ma il principale fine di questa società è il diritto. Mentre lo Stato collega giuridicamente solo i cives, la “totale umanità” come societas iuris è il legame giuridico di tutti gli uomini e di tutte le Nazioni, che diventano così partecipi di un diritto obbiettivamente valido comune e unico per tutti e, con ciò, della fonte del diritto soggettivo umano.
A questo punto siamo arrivati di fronte al nucleo di questa analisi: il diritto dello Stato, lo jus civium o jus civile, è il diritto empirico o positivo dei Romani, che per la scienza giuridica romana ha rappresentato il punto di partenza ed è stato sempre considerato come la quintessenza del diritto. Ma ora è apparso come a questo diritto positivo si può associare un diritto che abbia valore per la totalità degli uomini e quindi per l’uomo in quanto tale.
- Curiosità giuridiche da ogni tempo e luogo
- Adele Pertici: la prima notaia
- La clausola degli spettri e altre storie di fantasmi in tribunale
- 9 agosto 1883: Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino ammette Lidia Poët
- Il Codice di Hammurabi
Quanto abbiamo detto fin qui mostra che questo diritto combacia in linea ideale con il diritto soggettivo umano, cioè con l’idea greca della giustizia, ma noi abbiamo ritrovato nel pensiero giuridico romano una caratteristica configurazione, cioè che esso trae la sua origine da un ordinamento giuridico obbiettivo che gli sta alla base. Questo ordinamento conduce al di là dei limiti e della sovranità dello Stato e sarà anche considerato come un assetto dato direttamente da Dio.
L’ordinamento giuridico proprio della societas hominum è lo jus naturale. Accanto a questo diritto naturale esiste un diritto positivo valido per tutta l’umanità, lo jus gentium. Entrambi questi concetti sono sono strettamente connessi tra di loro nel diritto romano. Entrambi hanno preso piede nell’empirismo romano sotto l’influsso della filosofia greca e si siano sviluppati insieme nella sfera ideale, ma non sono mai giunti all’unità.
La strada per la quale lo jus gentium è penetrato nella sfera ideale è quella del diritto comparato. Lo jus gentium è presso i Romani il prodotto di questo procedimento scientifico: il diritto comparato infatti fu consapevolmente rivolto a separare nelle positive costituzioni giuridiche dei diversi popoli, che erano in relazioni commerciali con i Romani, le norme proprie e particolari da quelle che erano comuni a tutti i diritti positivi e concordanti tra loro. Quest’ultime rappresentavano il fondamento dello jus gentium come diritto valido nel commercio con gli altri popoli. La comunanza, sorta senza previo accordo, di alcune norme faceva agevolmente pensare a una loro più alta origine, implicando che queste norme come ideali comuni venissero prima delle norme empiriche e dovessero indicare a esse il modo della loro configurazione.
Mentre nella filosofia greca, attraverso la ricerca dell’idea di giustizia, abbiamo trovato solo degli accenni al diritto comparato come metodo, il positivismo giuridico romano ci mostra il diritto comparato come via al ritrovamento degli elementi giuridici meta-empirici.
Possiamo così dire, in pieno diritto, che Grozio ha esattamente compreso e adoperato l’antico metodo giuridico-filosofico, adoperando la sinopsi e il diritto comparato per il ritrovamento dell’idea di diritto. Alla luce di ciò, possiamo anche noi richiamarci al pensiero antico, se vogliamo estendere il medesimo procedimento metodologico alla moderna dottrina giuridica.
© Riproduzione riservata