Il giudice dei giorni nostri deve esibire fermezza per non sottostare a vincoli estranei a quelli che gli vengono dalla legge e dagli standard probatori, così da non cadere nel “paradosso” di Pilato.
La figura di Ponzio Pilato cattura naturalmente l’attenzione di qualsiasi giurista, avendo egli presieduto il più drammatico e noto dei processi di tutti i tempi, quello a Gesù (e qui “processo” va inteso – seguendo quanto spiega Salvatore Satta, nel suo “Il mistero del processo” – come «momento eterno della formazione del giudizio»). Di conseguenza, non si può parlare di Pilato se non si parla del processo a Gesù e del ruolo che egli ha giocato nell’economia di quell’evento, a partire dalla più controversa delle domande: Pilato fu giudice “giusto” o “ingiusto”, fu dispensatore di giustizia o di ingiustizia?
Le narrazioni evangeliche – in specie quella di Giovanni – ci presentano un Pilato distaccato e scettico: quel suo atteggiamento (così ben condensato dalla celebre domanda “quid est veritas?”) è stato ampiamente studiato per le sue implicazioni filosofiche e religiose, ma, visto con gli occhi dello studioso del diritto, va apprezzato come qualità indispensabile in un uomo, per dirla con Sciascia, gravato della “dolorosa necessità del giudicare”.
Come già notato da Satta, quello a Gesù è stato un processo in cui le regole del diritto vengono messe in crisi dalle esigenze della politica, un processo
«in cui sembra che due giusti si contrappongano e che distinguere il giusto dall’ingiusto non si possa talora se non sulla linea della forza, in cui non si sa più chi sia l’accusato e chi l’accusatore, e l’assoluzione dell’accusato si risolve in una condanna, spesso non solo morale, dell’accusatore».
Come ricorda lo storico del diritto romano Aldo Schiavone (nel suo “Ponzio Pilato”, ed. Einaudi), il governatore della Giudea doveva essere al corrente della decisione e delle conseguenti azioni deliberate dal Sinedrio riguardo Gesù: eppure, fin da subito, egli dimostrò di voler essere giudice vero (“giusto”, per l’appunto) e non membro passivo di un regolamento di conti interno alle fazioni giudaiche. Tutto il resoconto evangelico del confronto tra Pilato e Gesù – iniziato come un interrogatorio e presto evoluto in un dialogo sui più alti sistemi – ci dà testimonianza dell’attività di ricerca di verità scrupolosamente posta in essere dal primo, fin dalla formulazione dubitativa del capo di imputazione mosso nei confronti di Gesù: “sei tu il re dei Giudei?”. Ascoltando Cristo che gli chiarisce che la regalità di cui egli è espressione non è quella secolare e mondana cui un romano sarebbe naturalmente portato a pensare, ma è di “un altro mondo”, Pilato si convince dell’innocenza dell’imputato. Il mistero del processo, direbbe ancora Satta, si è compiuto:
«il processo, una volta istituito, vive di vita propria, o almeno tende a vivere, e si ritorce come una serpe contro colui che l’ha allevato».
Ma quello a Gesù non era un processo ordinario, e nelle intenzioni dei suoi promotori non poteva che concludersi con una sentenza di condanna. I capi dei sacerdoti – anticipando Danton al processo di Luigi XVI – non volevano vedere Gesù solo giudicato, ma giustiziato: e la loro ostinata pervicacia riuscì, infine, ad avere la meglio.
È curioso – lo nota Giorgio Agamben nel suo “Pilato e Gesù”, ed. Nottetempo – che nella narrazione giovannea il processo sembri concludersi non con la pronuncia della sentenza, ma con un non liquet, rappresentato dalla consegna di Gesù ai Giudei per la crocifissione. E un processo senza sentenza, non può essere considerato come tale: potrebbe dunque dirsi che, per consentire l’uccisione di un innocente, Pilato abbia dovuto prima “uccidere” il processo stesso. E del resto, già Giovanni Rosadi (“Il processo di Gesù”, ed. Sansoni), scrisse che
«Gesù di Nazareth non fu condannato, ma ucciso: il suo sacrificio non fu un’ingiustizia, fu un omicidio».
L’opinione di Agamben è quella di un autorevole filosofo, ma noi preferiamo aderire alla riflessione storico-giuridica di Schiavone: la sentenza di morte non è riportata dall’evangelista, ma non può dubitarsi che essa sia stata infine pronunciata (l’autorità era pur sempre romana, come romana era la pena della crocifissione). Pilato volle essere giudice “giusto”, ma senza riuscirvi: egli è stato dunque un uomo sconfitto, testimone, impotente, del proprio fallimento (e chissà se il “procuratore” di Anatole France, facendo mostra di aver dimenticato Gesù, non abbia invece voluto dimenticare l’ignominia di quella sua resa). La terzietà del giudicante – garanzia di un vero processo, ricorda Satta – se è stata in grado di garantire all’imputato Gesù il diritto ad essere ascoltato in modo equo e imparziale, non è stata, però, capace di resistere alle pressioni della parte accusatrice. È sempre Satta a spiegare, in modo mirabile, quali siano le conseguenze di questa resa:
la parte preme contro la sottile barriera di legno che la divide dal giudice: se riesce a superarla materialmente, sarà il linciaggio; se riesce a superarla spiritualmente, sarà la parte che giudicherà e non il giudice, cioè non si avrà giudizio.
E questo vale tanto per il processo a Gesù, quanto per i processi dei giorni nostri. E, anzi, questo rischia di essere tanto più vero oggi che ieri, dal momento in cui si assiste alla celebrazione di processi paralleli e mediatici, che giungono a verdetto ben prima della giustizia ordinaria e quasi sempre con un esito di colpevolezza: con il risultato per cui, se il processo “vero” dovesse concludersi con il riconoscimento dell’innocenza dell’imputato, il pubblico potrebbe radunarsi intorno al palazzo di Giustizia quasi reclamando una contraria sentenza. È accaduto nella Gerusalemme del tempo di Gesù, è accaduto qualche anno addietro a Perugia, quando la Corte d’Appello trovò innocenti Amanda Knox e Raffaele Sollecito.
Il giudice, per essere “giusto”, deve quindi essere anche in grado di resistere a queste pressioni. Pilato non ci riuscì: e forse, nel cospirare per l’ingiusto pronunciamento di morte, fu essenziale la mancata comprensione, sino in fondo, della verità di Gesù. Il governatore subì l’influenza di quest’ultimo, senza però riuscire a farla propria (perché carente degli strumenti culturali e religiosi necessari): e, alla fine, messo alle strette, fu costretto a sacrificare la verità e la giustizia sull’altare delle ragioni “politiche”.
Ne dà prova l’iscrizione – addirittura trilingue – sulla Croce (“Gesù il Nazareno, Re dei Giudei”): il cartiglio avrebbe dovuto riportare il capo di imputazione e, invece, proclama la regalità di Gesù, così provocando lo scandalo dei sommi sacerdoti che chiedono al prefetto di modificarne il contenuto. È probabile che, in questo modo, Pilato abbia voluto infliggere un ultimo oltraggio ai Sinedriti, che già durante il processo avevano dimostrato di non sopportare che quel titolo venisse usato per Gesù. Ma è altrettanto probabile che il governatore, alla fine, vergando quell’iscrizione, si volesse convincere di essere stato un amministratore di giustizia e non uno di ingiustizia e, quindi, non di aver mandato a morire un innocente, ma di aver liquidato una fonte di potenziale pericolo per l’ordine pubblico e la salvaguardia degli interessi romani.
C’è da augurarsi che il giudice dei giorni nostri sia in grado – come ha dimostrato e continua a dimostrare – di esibire la fermezza necessaria per non sottostare a vincoli estranei a quelli che gli vengono dalla legge e dai moderni, rigorosi standard probatori, così da non dover cadere nel “paradosso” di Pilato: condannare un innocente per assolvere se stesso dalla colpa di non essere stato “giusto”.
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