Durante la festa di Sant’Anna nel 1883 a Molfetta il prete Todisco inveì nel suo sermone contro il matrimonio civile, una pratica empia per cui i coniugi che lo contraevano avrebbero dovuto essere scomunicati e i legislatori che lo avevano introdotto non fossero altro che “meschini poetuzzi”. La vicenda finì, naturalmente, di fronte alla Corte di Trani e il 28 novembre 1883 arrivò la sentenza.
Chiesa e Stato, legge di Dio e legge degli uomini nei secoli sono spesso stati in conflitto per il trono sui mortali. In Italia, poi, i dettami vaticani da sempre s’insinuano – e talvolta si buttano proprio a capofitto! – negli interessi e nelle azioni dello Stato. Molti governanti hanno voluto chiarire alla Chiesa quale fosse il suo posto nella vita degli uomini, ma se sovrani del calibro di Enrico IV, imperatore del Sacro romano impero, furono sopraffatti dalla potenza del papato, ecco che ai più moderni legislatori qualcosa riuscì per il meglio.
La vicenda che vogliamo raccontarvi viene da una sentenza della Corte di Trani del 28 novembre 1883, e ci porta in Puglia, nella bella Molfetta di quegli anni. Viveva lì felice il canonico Emilio Todisco, e forse sarà vero che in nomen omen, giacché lo scorbutico prete non si accontentava di vivere sereno nella sua chiesetta vista mare. Un bel giorno, infatti, decise di criticare il lavoro dei legislatori che avevano regolato il matrimonio civile, inveendo contro di loro dall’alto del suo pergamo, chiamandoli ora commedianti, ora romanzieri da trivio. Si trattava di un atto immorale, a suo giudizio, invischiarsi nei legami sacri, come quello del matrimonio, che la Chiesa sanciva da secoli.
Una voce tra tante già sentite, sicuramente, un ecclesiastico matusa – non era novità già allora! Eppure, qualcuno pensò di non fargliela passare liscia…
Il prete aveva scelto di inveire contro i rappresentanti dello Stato durante le celebrazioni per la festa di Sant’Anna, il 26 luglio 1883, con la chiesa gremita di fedeli. Prendendo spunto dal passo biblico in cui si accenna al matrimonio tra Anna e Gioacchino, poi genitori di Maria Vergine, manifestò la sua intolleranza verso il matrimonio civile in Italia, definendolo un “continuo concubinato” giacché non vi era la benedizione del sacramento. Come se non bastasse il matrimonio civile era, ovviamente, un’importazione malevola d’oltre confine: ispirata alle leggi “della perfida Inghilterra e dell’empia Germania”.
Ma Todisco non si fermò qui: nel furore del suo accanito sermone fulminò anche i legislatori di quella infelice Italia che avevano fatto la legge, definendoli “quattro commedianti e romanzieri da trivio, meschini poetuzzi, che elevatisi a sommi giureconsulti, avevano fatto il regalo di questo flagello e di questa onta alla Chiesa“.
Pure l’istruzione laica fu presa di mira, perché da questa “non escono che petrolieri e comunardi“, e prese a incitare il popolo a mandare invece i figli alla scuola dei preti.
Tale fu il vigore e il disprezzo con cui pronunciò questi discorsi, che dalle fila dei fedeli s’alzarono fischi e persino lamentele di altri prelati. La questione così passò al giudice.
Furono ascoltati sei testimoni, uno dei quali giurò di aver sentito dire al Todisco che i cittadini contraenti matrimonio civile sono scomunicati. Minaccia molto efficace ai tempi per scoraggiare l’atto, se si pensa all’elevata devozione religiosa e la scarsa conoscenza delle leggi nel cittadino medio. Un secondo testimone attestò le critiche al Governo per la legge sul matrimonio, ma il Todisco, sotto interrogatorio, negò di aver mai menzionato alcuna legge.
Sostenne piuttosto che gli insulti come romanzieri da trivio e meschini poetuzzi fossero sì stati pronunziati, ma contro i giornalisti che trattavano del divorzio – pratica di Satana! – per poi portare a sua difesa cinque testimoni che confermarono la sua versione. Secondo quei cinque, il succo era questo: il prete inveiva contro l’evolvere dei tempi e della società civile, non contro le istituzioni.
Evidentemente non convinsero il giudice, che punì il prelato ai sensi dell’art. 268 del Codice penale, che regola la censura.
Nella sentenza particolare attenzione fu data alla libertà di coscienza: definita come “uno dei diritti più sacri e più inviolabili che alla famiglia italiana ha dato la redenzione della patria”.
Inoltre, si ricorda l’influenza che i ministri del culto posseggono per mezzo della parola, e dunque usato male tale potere risulta “pericolo e di grande allarme”. Perciò, pur essendo libero l’esercizio del culto, questo deve tenersi entro i limiti della sua missione – quella di supporto della spiritualità. Non possono ammettersi posizioni con o contro il sistema politico da parte degli ecclesiastici, né tanto meno discorsi attorno alle leggi e al lavoro delle istituzioni.
La vicenda ben s’inserisce nella disputa allora vigente tra Stato e Chiesa, in particolare sulla parificazione del matrimonio religioso a quello civile. Al tempo, infatti, formalmente Stato della Chiesa e Regno d’Italia non avevano ancora firmato alcun accordo dopo la presa di Roma del 1870, e lo stesso papato, attraverso la formula del non expedit, aveva sancito che i cattolici italiani non dovessero partecipare alla vita politica del Regno d’Italia, divieto sanzionato con decreto della Sacra Penitenzieria del 10 settembre 1874.
Recita infatti la nostra sentenza:
Laddove il potere spirituale, abusando della sua alta e grave funzione sociale, esce fuori dai suoi confini per invadere il terreno del potere temporale, l’autorità civile è obbligata a intervenire nello interesse supremo dell’ordine pubblico.
Una sentenza davvero all’avanguardia, non è vero? Siamo certi che potrebbe giovare ancora oggi nel nostro sistema politico-istituzionale, se venisse ricordata più spesso quando i nostri rappresentanti si apprestano a regolare temi etici particolarmente sensibili per noi contemporanei.
Voi, cari lettori, come la pensate?
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