Nel 1899 lo scrittore francese Octave Mirbeau dava alle stampe un romanzo sui sistemi giuridici e i bizantinismi delle pene capitali in Cina. Una visione piena di orientalismi, ma che mostra le differenze etiche ed estetiche della giustizia e della morte fra Oriente e Occidente.
Lo scorso 28 ottobre, Martina Di Liddo pubblica su Massime dal Passato un articolo intitolato “La sciabola e il tè“, dedicato alle esperienze vissute dall’Avvocato Manlio Scarpari nel 1905 in Cina.
Il collega Scarpari si reca nella terra del Celeste Impero come corrispondente della rivista “La Scuola Positiva“. Lì assiste a una di quelle esecuzioni che solo i cinesi (dell’epoca) sanno fare: una rappresentazione drammatica e sofisticata, fatta di liturgie e menomazioni, dove si manifesta una assai curiosa analogia tra la calma serafica del mandante dell’esecuzione – il Mandarino che beve sereno il tè – e la tranquillità rassegnata dell’esecutata: «la piccola donna non mostrava di preoccuparsi gran che di ciò che andava a soffrire». Mondi e tempi lontanissimi, che nonostante la truculenza continuano in un certo qual modo a solleticare la nostra curiosità. Del resto, non è un caso che la serie de L’Enigmista – dove la gente muore nei modi più barocchi possibili – rimane un’operazione commerciale campione d’incassi.
Ora non tutti sanno che vi fu un autore francese che dedicò un intero romanzo, ambientato nella colonia penale di Canton, ai sistemi di esecuzione cinesi: si chiamava Octave Mirbeau – che rimase famoso per aver pagato le spese processuali a Emile Zola, dopo che questi fu chiamato a rispondere del celebre “J’Accuse” – e la sua opera si intitola Il Giardino dei Supplizi.
Prima di entrare nel vivo occorre fare due premesse: una giuridica, l’altra di costume.
Innanzi tutto, dobbiamo distinguere la “tortura” dalla “esecuzione”. Ebbene: la tortura non è una pena. Per quanto possa sembrare strano, la tortura oggi troverebbe posto nel Libro III, Titolo III del nostro codice di procedura penale, sub specie “mezzi di ricerca della prova”. E infatti, ci spiega Franco Cordero che un collettivo anonimo, nel 1260, pubblica un manuale dal titolo assai inquietante, ossia il “Tractatus de tormentiis“, dove si legge che “inquisitio… ad eruendam veritatem per tormenta et corporis dolorem“. Che significa? Significa che la tortura serve a far parlare, non a punire: “è una bestia da confessione l’inquisito e va sfruttato a fondo“. Altra cosa è l’esecuzione, che a sua volta può benissimo compiersi previo utilizzo di arnesi il cui unico scopo è fare male (vedi la morte di György Dózsa o di Sebastiano Montecuccoli), eppure teleologicamente orientati a togliere la vita. Identica algolagnia, ma finalità differenti.
Seconda premessa, di costume. La Cina ha sempre colpito l’immaginario collettivo, specie nel periodo della Belle Époque. I nostri bisnonni – per capirci – guardavano alla Cina come noi oggi guardiamo ai marziani: un altro mondo, molto più antico e sofisticato del nostro, che difficilmente poteva essere incasellato dentro categorie “occidentali”. Ne venivano fuori mode, tendenze, fantasie. Già nell’800 i Borbone fanno costruire a Palermo una casina “cinese”, secondo quel che loro pensavano fosse il gusto dell’Estremo Oriente, e a Parigi iniziava il filone delle chinoiserie, cioè libere interpretazioni di un Oriente lontano e mitico. Dentro le fumerie, poeti maledetti e pittori altrettanto maledetti si detonato il cervello con l’oppio cinese. Il mistero che avvolge una terra così lontana – giusto raggiunta da quel gesuita maceratese di Matteo Ricci – suscita anche timori tutt’ora in voga: cade sul terreno delle ansie sociali il seme della sinofobia, che germoglierà di lì a poco in tutto il mondo occidentale.
In questo contesto di fascinazioni, porcellane Ming e raffinatissime suppellettili laccate, il nostro Octave Mirbeau decide di prendere la penna in mano e di scrivere sui sistemi giuridici e sui bizantinismi (ecco ancora una volta l’Oriente) delle pene capitali.
Inizia il romanzo con una considerazione palingenetica della società:
Credo veramente che il delitto sia la più grande preoccupazione umana e che tutti i nostri atti derivino da questo. Poiché il delitto è la base stessa delle nostre istituzioni sociali e quindi la più imperiosa necessità della vita civile… Se non ci fosse più il delitto, non ci sarebbero i governi ed è per questo fatto lodevole che il crimine in generale, e il delitto in particolare, non è solo e semplicemente la loro giustificazione, ma la loro unica ragion d’essere.
Messaggio agli studenti di giurisprudenza e di scienze politiche: se vi cimentate nelle rassegne della Suprema Corte, sappiate che essa esiste – per Mirbeau – sol perché sentiamo il bisogno intrinseco di scannarci gli uni con gli altri.
Ma al delitto – secondo i canoni di Dostoevskij – segue sempre il castigo. Ed è qui che, secondo le immagini di Mirbeau, si manifesta la fantasia dei cinesi (o meglio: di quel che all’epoca si pensava fossero i cinesi).
C’è questo protagonista che viene mandato in Cina perché
dodici anni fa, non sapendo più cosa fare e costretto da una serie di circostante sfortunate alla dura necessità di impiccarmi o di andare a buttarmi nella Senna, mi candidai, come estrema risorsa, alle elezioni legislative in un dipartimento in cui, fino ad allora, non conoscevo nessuno e in cui non avevo mai messo piede.
Purtroppo per lui
non fui eletto. La schiacciante maggioranza che toccò al mio avversario io la imputo, al di fuori di certe manovre sleali, al fatto che quel diavolo d’un uomo era ancora più ignorante di me e di una mascalzonaggine più nota. Constatiamo per inciso che una mascalzonaggine ben evidente, in questa epoca, sostituisce tutte le qualità e che più un uomo è infame più si è disposti a riconoscergli forza intellettuale e valore morale.
Ogni analogia col presente è vietata, sappiatelo.
Il nostro, dunque, viene mandato in missione nel Paese della Muraglia e lì incontra una aristocratica inglese, disegnata secondo estetiche preraffaellite, la cui unica preoccupazione è unire eros e thanatos. Inizia un’avventura i cui particolari andrebbero descritti nei siti che raccolgono il più improprio uso della tecnologia di internet che ha come epilogo l’accesso al Giardino dei Supplizi “creato verso la metà del secolo scorso da Li-Peng-Hang, sovrintendente ai giardini imperiali, il botanico più insigne che abbia avuto la Cina”.
In questo spazio immenso, Paradiso e Inferno coincidono: “La sua straordinaria fertilità viene ancora oggi alimentata dagli escrementi dei prigionieri, dal sangue dei torturati che formano un potente composto di cui sono voraci le piante”. Sì: perché nella lussureggiante vegetazione – tra le più rare essenze arboree – i Boia amputano, bruciano e squartano secondo i decreti del Mandarino.
Qualche secolo dopo, il Prof. Nicola Picardi darà alle stampe il suo manuale di Procedura Civile, dove traccia una summa divisio tra i sistemi giudiziari occidentali e orientali. A differenza dei primi, questi ultimi prediligono la composizione delle controversie in via stragiudiziale: retaggio del terrore che, ancor ora, suscitano le antiche autorità.
Ne La sciabola e il tè, l’Avvocato Scarpari per deformazione professionale concentra la sua attenzione sull’Autorità che irroga la sanzione. Mirbeau, invece, intervista (fittiziamente) colui il quale esercita per delega quella violenza cui l’Ordinamento è monopolista. Dalle parole del boia, il cui volto esprimeva bonomia e perfino la giovialità di un chirurgo che ha appena portato a termine una difficile operazione, esce una vera e propria estetica della pena capitale:
Era un miserabile coolie del porto… non meritava certamente l’onore di un così bel lavoro … quando gli ho tolto la pelle, che ho lasciato fissata alle spalle con due piccoli occhielli, l’ho obbligato a camminare, milady! Sembrava avesse sul corpo un pipistrello. Quel cane non era stato mai così ben vestito da un sarto tanto abile.
Dinanzi all’orrore di un supplizio da Malebolge, il Boia si sente in dovere di dare una spiegazione.
«Vedete, milady, il nostro mestiere, così come i nostri bei vasi, le nostre belle sete ricamate, le nostre belle lacche, si va sempre più perdendo. Oggi non sappiamo più cosa sia veramente un supplizio. Sebbene mi sforzi di conservarne le autentiche tradizioni, sono sopraffatto. Non posso da solo arrestarne la decadenza. Cosa vuole, oggi non si sa più dove reclutino i carnefici. Niente più esami né concorsi. Le scelte sono decise solo da favoritismi e protezioni. E che scelte, sapesse! Una vergogna! Una volta queste importanti funzioni erano affidate solo ad autentici esperti, a persone di merito… Niente più gerarchia né tradizione. Si va perdendo tutto. Viviamo in un’epoca di confusione. Vi è qualcosa di marcio, in Cina, milady».
E aggiunge:
«Sono un vecchio conservatore e mi ripugnano tutte quelle pratiche, tutte quelle nuove mode che ci trasmettono gli europei, soprattutto gli inglesi, con il pretesto di civilizzarci. L’arte non consiste nell’uccidere molto, scannare, massacrare, sterminare in blocco gli uomini. L’arte, milady, consiste nel saper uccidere, secondo riti di bellezza di cui solo noi cinesi conosciamo il divino segreto. Lo snobismo occidentale che ci ha invaso, le corazzate, i cannoni a tiro rapido, i fucili a lunga gittata, l’elettricità, gli esplosivi, che altro? Tutto ciò rende la morte collettiva, amministrativa e burocratica».
Ne esce quasi una dimensione artigianale della esecuzione capitale, in contrapposizione con quella meccanica tipica dell’Occidente. Sì, meccanica: in un certo senso, ciò deriva dalla grande inversione dei poli cui si assiste quando si passa da un rito inquisitorio (processi segreti, esecuzioni pubbliche e magnifiche) a un rito accusatorio (processi pubblici e punizioni fuori dagli occhi del popolo, delegate agli apparati penitenziari).
Al di là della questione prettamente istituzionale, quel che balza all’occhio è la premonizione di Mirbeau. Scriveva nel 1899, e metteva in bocca al Boia i contorni di quel che verrà dopo: l’industrializzazione della Morte, con la Grande Guerra, e la burocratizzazione della Morte, con i campi di concentramento. Si arriverà anche alla geo-politicizzazione della Morte, con lo sgancio delle atomiche e il principio del deterrente (paradossalmente, il miglior garante della pace) che da esso ne derivò.
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Nonostante tutto, il macabro continua ad affascinare. Forse perché serve a farci prendere coscienza di ciò da cui siamo (si spera) liberi, come spiega Lucrezio Caro. O forse perché, in fondo, siamo tutti dei potenziali assassini: “No, non voglio farti del male, fratello mio. Non avere paura perché porto il coltello tra i denti e perché agito il fucile come emblema virile. Di questo invece devi avere paura: io sono un uomo come te”.
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