Tuttologi, saccenti, inconcludenti e… senza clienti. Ecco come erano visti nel 1940 gli avvocati milanesi dai colleghi meridionali.
Gli stereotipi sulle differenze nord/sud esistono, purtroppo, da tempo immemorabile. E non c’è umorismo che mi appassioni di meno e che mi urti di più di quello giocato su cibo, accenti, attitudini, abitudini, e tutta quella accozzaglia di siparietti insulsi che, insomma, avete capito. Immaginate quanto poi meno mi possano appassionare gli stereotipi sugli avvocati. Ma se le due cose si mescolassero e se ci proiettassimo indietro nel tempo, la faccenda si farebbe immensamente più succulenta.
Vi spiego: tra le pagine per me mitiche di alcuni numeri degli anni ’40 de La Corte d’Assise, una rivista curata da Foggia, molto attenta alle vicende processuali del Mezzogiorno e protagonista delle mie letture crepuscolari, avevo scorto la rubrica dal respingente titolo “Avvocati Milanesi”. Le prime volte non ho avuto la minima intenzione di leggere di cosa parlasse, ché di avvocati milanesi anche basta.
Ma l’altro giorno ho dato una chance a una paginetta dedicata a tal Avv. Luigi Vacchelli, e bene ho fatto! Vi si dipinge il curioso ritratto di un avvocato milanese del tempo. Chi sarà stato mai, costui? Non siamo riusciti a trovare alcuna evidenza storica della sua esistenza, tanto che abbiamo iniziato a credere che sia tutto frutto dell’immaginazione di un sagace redattore. Ma, anche se Vacchelli non fosse mai esistito, che importanza avrebbe? Sappiamo però certamente che aveva “testa di pensatore, occhio di giacobino, mani da prelato, voce di canonico, passo di moschettiere, anima di apostolo, temperamento di professore”.
Il tono della descrizione è tutto ossequioso e riverente, sicché all’inizio uno potrebbe ben pensare di trovarsi al cospetto dell’elogio di un Carnelutti. E infatti dell’avvocato milanese vengono esaltate le doti oratorie in tutte le scienze: un tuttologo che eccelle in filosofia, psicologia, storia, economia politica, diritto criminale comparato, sociologia, letteratura tedesca, e che fa presto a mandare a memoria le arringhe in inglese, o anche l’abitudine a leggere dal tedesco. Poi, però, di Vacchelli si scopre anche che è totalmente fuori dal suo tempo, che non bada alle udienze imminenti, che è sordo alle parole dei colleghi che gli fanno visita, che è stato più volte richiamato per l’inconcludenza da parte delle Corti mentre parla degli “alti alti rami fronzuti della ragion pura“, e che ha infine… davvero pochi clienti.
C’è pure la stoccata finale: a Napoli infatti sanno ben riconoscere «se un avvocato è un genio o un minchione», e lì capirebbero subito quindi che Vacchielli è un genio. Il che è come dire che era un minchione.
Quanta ironia in poche righe, insomma. Al sud, quindi, 80 anni fa sfottevano gli avvocati milanesi così:
L’avv. Vacchelli – cinquantenne, testa di pensatore, occhio di giacobino, mani da prelato, voce di canonico, passo di moschettiere, anima di apostolo, temperamento di professore – è uno dei più «provetti» avvocati penalisti di Milano e, ad un tempo, indiscutibilmente, il più geniale filosofo del foro italiano.
Sono andati gli avv. Ramella e Flores a trovarlo oggi, nel pomeriggio. Vacchelli era quasi sepolto sotto una montagna di libri (specialmente libri tedeschi e inglesi). Ha ricevuto, tuttavia, i due onorandi colleghi con grandiosa solennità. Prima di dar loro il tempo di spiegare il motivo, puramente prosaico e professionale, della visita (la causa Pittaluga) li ha rinviati alla immediata lettura dei Dialoghi di Platone stesi (alla larga!) in greco sopra un ampio leggio.
Poi s’è diffuso in una sottile, iridescente e fantasiosa dissertazione di filosofia, di storia, di economia politica, di diritto criminale comparato, di letteratura tedesca e inglese e, infine, ha iniziato la declamazione (in inglese!) di una sontuosa orazione di Pitt. Non c’era verso di condurlo nell’oggetto della visita. Nel momento culminante dell’orazione (la misura era colma), l’avv. Flores ha azzardato timidamente una domanda: «Scusa, Vacchelli, ma questo Pitt è forse un parente di Pittaluga, imputato di rapina a mano armata e che dovremo difendere il giorno…». Allora soltanto Vacchelli, saltato fuori dall’aeroplano, è disceso, col paracadute, dalle nubi sul terreno della rude realtà.
In udienza segue lo stesso sistema. Non ascolta – o interrompe continuamente – l’avversario. Trascura ostentatamente le deposizioni testimoniali. Nel momento dell’arringa colloca (egli, che non è professore!) una lunga fila di libri sul tavolo, si piazza nel bel mezzo del pretorio con la faccia rivolta all’avversario (una guancia verso i «signori del collegio» e l’altra guancia verso il «profanum vulgus») e, con tono cattedratico e solenne, con lo sguardo ispirato, spesso rivolto al soffitto o, meglio, alle «regioni sideree della ragion pura» costruisce – senza pezze d’appoggio e senza appunti ò la sua policroma dissertazione.
L’«arringa» di Vacchelli, più che orazione materiata di fatti, di «richiami» processuali, di ruggiti cavernosi, di grida soffocate, di strappi violenti di frasi, di gragnuola di parole, di scatti, di invettive, di voli lirici, di gemiti, di sospiri e di rimpianti, è una elevata, vibrante, luminosa e originalissima «lezione» di psichiatria, di psicologia, di sociologia, e di diritto.
Oh, le volate oratorie tra «gli alti rami fronzuti» (l’espressione è sua) della «ragion pura»!
Oh, le sostanziose divagazioni tra i «queruli canneti» (sic) della scienza criminale internazionale!
Naturalmente, dopo i sacramentali «dieci minuti» interviene il presidente: «Avvocato, siate ragionevole… Abbiamo un’altra causa da decidere. Da dieci minuti voi parlate e io non vi ho mai interrotto…Dieci minuti, capisco. Ma un quarto d’ora, via, è troppo!… Di grazia, volete concludere?». E l’avv. Vacchelli, cortesissimo, come sempre, conclude: «Di fronte all’invito del presidente non mi resta da fare altro che inchinarmi religiosamente e concludere rimettendomi all’equità del Tribunale illustrissimo».
Quest’uomo che in altra città, ad es. a Napoli – «a Napoli dove (come bene ha scritto Genuzio Bentini) si vede subito se un avvocato è un genio o un minchione» – occuperebbe, a fianco di Bentini, uno dei primissimi posti, a Milano è quasi sconosciuto. Egli (che vive solitario e rifugge dall’intrigo e dalla caccia al cliente) avrà, si e no, quattro o cinque cause penali all’anno!
Eppure in nessuno meglio che in lui sembra che si riscontri la finezza della dottrina giuridica unita alla larghezza della cultura psicologica, sociologica, politica, filosofica, storica, ecc. In nessuno meglio che in lui sembra operativo lo spirito del metodo cartesiano, la ricerca religiosa delle idee nuove e geniali, non contaminate da preconcetti di scuola e tradizione.
Egli è uno dei pochissimi che abbiano la vera cultura, cioè la cultura non soltanto mnemonica o dogmatica, ma anche critica (distruttiva e ricostruttiva), immune da ogni traccia e taccia di infatuazione e col fiuto attento ad ogni modernità. A seguirlo nelle sue indagini vaste e serrate si è sicuri di mettere più ordine e luce nelle proprie idee, di fare qualche passo sicuro e di assumere una orientazione precisa.
Alcuni vollero, è vero, definirlo un «sognatore». Altri preferirono irreggimentarlo, senz’altro, tra i «professori di filosofia». Ma Vacchelli – a onta delle due, forse eccesive, preferenze per il freddo metodo deduttivo – è oratore vibrante, complesso, eterodosso, iconoclasta, scassinatore di «luoghi comuni» e non si presta a incasellamenti o accasermamenti arbitrarii.