Quali erano le norme che regolavano l’estradizione nella giurisprudenza internazionale cento anni fa? Vediamo alcune differenze e similitudini tra il 1900 e la dottrina attuale.
Ci è capitato di leggere un articolo della Rivista Penale del 1900 che si interroga sulla regolamentazione dell’estradizione nella giurisprudenza internazionale. Come sapete bene, si tratta di una forma di cooperazione giudiziaria tra Stati in materia penale, in cui uno di essi consegna all’altra parte un individuo – imputato o condannato – che si sia rifugiato nel suo territorio per sfuggire a giudizio penale (estradizione processuale) o alla pena (estradizione esecutiva).
Oggi, l’estradizione è regolata da norme di diritto internazionale pattizio, poiché non esistono consuetudini internazionali (ius cogens o opinio iuris) che impongano agli Stati l’obbligo di concedere l’estradizione.
Nell’articolo del 1900, gli autori descrivono le varie e interessanti norme che regolavano l’estradizione oltre cento anni fa. In primo luogo, era generalmente riconosciuto dalla giurisprudenza internazionale il principio di retroattività dell’estradizione, per cui quando uno Stato avesse acconsentito a concedere tale pratica giuridica a una o più parti, sarebbe stato possibile richiedere l’estradizione anche di coloro rifugiatisi nel Paese in questione negli anni precedenti. Naturalmente, ciò sarebbe stato possibile a meno ché non fosse stato esplicitamente vietato dal trattato tra le parti, come nel caso della Convenzione italo-greca del 23 maggio 1878.
La regola della retroattività valeva anche negli Stati Uniti, come si osserva nel caso Di Giacomo sollevato dal governo italiano. La richiesta di estradizione di chiuse nella sentenza del 24 dicembre 1874 della Corte di circuito degli Stati Uniti, distretto sud di New York, nella quale il giudice Blatchford osservò che:
Il principio, sul quale i trattati di estradizione sono fondati, è che nessuna nazione deve permettere che il suo territorio diventi un luogo di rifugio per i delinquenti. Questo principio è violato per il semplice fatto che un delinquente vi si è rifugiato: e ciò senza che si debba tener conto dell’epoca della perpetrazione del delitto.
Nei decenni successivi, la regola generale della retroattività non sarebbe stata prevista da molti casi. Ad esempio, nel 1988 l’Italia richiese un procedimento penale alla Svizzera nei confronti del brigadista italiano Alvaro Lojacono, che godeva della cittadinanza svizzera grazie alla madre, Ornella Baragiola. Lojacono fu condannato nel 1989 a una lunga pena detentiva a causa dei reati commessi tra il 1975 e il 1980, ma una sentenza pronunciata in contumacia in Italia nel 1996 non fu mai eseguita perché riguardava un reato commesso prima dell’entrata in vigore dell’AIMP svizzera, ossia la Legge federale sull’assistenza internazionale in materia penale, in vigore dal 1° gennaio 1983, di fatto una legge che non poteva essere applicata retroattivamente.
Il nostro articolo di poneva poi un quesito: l’estradizione valeva nei confronti delle colonie e dei possedimenti d’oltremare di uno Stato? Una domanda ben lecita e delicata se si pensa ai domini delle grandi potenze del tempo.
Secondo il giurista e filosofo tedesco Emmeric de Vattel, che scrive alla metà del Settecento, il diritto vigente in uno Stato si applica senza distinzioni anche alle sue colonie. Così, la Francia ad esempio non menzionava mai le sue colonie nei trattati d’estradizione con gli altri Paesi, ma i suoi governi non negarono mai l’applicazione ai territori diversi dalla madrepatria.
In Italia, l’applicazione dell’estradizione alle colonie viene contestata dalla difesa nel caso Livraghi. L’avvocato dell’imputato obiettò che l’estradizione, richiesta dalla Svizzera, potesse applicarsi ai possedimenti italiani in Africa, dove egli si rifugiava. Sul caso si pronunciarono esperti delle università svizzere, e la stessa Corte di Parigi, ma l’Italia convenne che:
I trattati internazionali contratti da un Paese si devono applicare anche nei territori sui quali gli Stati contraenti hanno un dominio pieno e diretto.
Oggi non si parla più di colonie, ma molti Stati sovrani includono territori che godono di una certa autonomia – si pensi alla Sicilia o al Trentino-Alto Adige, oppure si pensi alle federazioni e confederazioni, come nel caso statunitense o svizzero. Ebbene, poiché la politica estera è di norma regolata dallo Stato centrale, i territori con parziale o totale autonomia fanno comunque riferimento al governo centrale, e dunque adottano l’estradizione se esso la adotta e verso i Paesi con cui esso stringe accordi.
Vogliamo sottolineare una nota importante della disciplina odierna in materia di estradizione: sebbene essa sia regolata da trattati per lo più bilaterali, la Convenzione dell’ONU sui rifugiati e la Corte europea dei diritti dell’uomo vietano il respingimento dello straniero verso Paesi dove sarebbero a rischio i suoi diritti, ad esempio se esposto al pericolo di tortura, e non solo. Similmente, nel nostro ordinamento l’art. 698 c.p.p. vieta l’estradizione dell’imputato verso uno Stato dove non vi sia garanzia di rispetto dei diritti fondamentali.
Infine, l’articolo ci propone un’importantissima questione: la competenza dei tribunali nazionali sull’interpretazione dei trattati di estradizione. Di fatto, l’interpretazione dei giudici è lo stimolo più importante alla legislazione nei Paesi che adottano la common law, ma costituisce anche un punto fermo nella creazione del diritto internazionale, perché le decisioni dei tribunali concorrono a creare consuetudini tra Stati soprattutto nelle materie che riguardano direttamente i cittadini – come nel nostro caso – e nel tempo diventano prassi, poi norme.
La giurisprudenza francese e quella italiana del tempo ritenevano che essendo i trattati internazionali materia di “alta amministrazione”, dovessero essere trattate soltanto dai rappresentanti diretti delle “Potenze”. Pertanto, l’imputato non può appellarsi a un tribunale, nazionale o no, chiedendo di interpretare e misurare la validità della richiesta di estradizione a suo carico. La Corte di Cassazione francese ha affermato:
L’estradizione di un accusato costituisce un atto di sovranità che sfugge a ogni apprezzamento e controllo dell’Autorità giudiziaria.
Questa antica consuetudine continua a valere ancora oggi, infatti se si pensa al nostro ordinamento, l’art. 720 del Codice di procedura penale prevede che sia il Ministro della Giustizia l’organo competente a domandare l’estradizione a un Paese terzo, senza menzione per i tribunali. Il comma 4 recita poi:
Il Ministro della giustizia è competente a decidere in ordine all’accettazione delle condizioni eventualmente poste dallo Stato estero per concedere l’estradizione, purché non contrastanti con i princìpi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano. L’autorità giudiziaria è vincolata al rispetto delle condizioni accettate.
Risulta chiaro, cari lettori, che non possiamo in questa sede proporvi una rassegna completa della giurisprudenza sull’estradizione, materia che andrebbe analizzata caso per caso. Confidiamo però di avervi rivelato qualche curiosità sul passato che ha contribuito alla creazione della giurisprudenza odierna.
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