Enfiteusi, s.f.
Nel corso della nostra rubrica, abbiamo visto diversi casi in cui il linguaggio giuridico, nel corso dei secoli, si sia dimostrato simpatico (etimologicamente parlando, non è certo uno che inviterei per un aperitivo sia chiaro) con altri ambiti della nostra lingua. Musica compresa.
Oggi parliamo di Enfiteusi, termine caro all’ex Premier Giuseppe Conte, e per farlo introduciamo anche un po’ di ambiance con un pezzo del Luciano Bertolotti Jazz Quartet che, a conferma di quanto sopra dichiarato, prende il nome proprio dalla nostra poetica forma contrattuale. Così quando qualcuno affermerà in vostra presenza “L’enfiteusi c’entra con il jazz come cavoli a merenda”, potrete tirar fuori un asso nella manica di tutto rispetto, degno del Grande Gatsby.
A beneficio dei non addetti ai lavori, rispolveriamo la definizione di Enfiteusi, e cioè un rapporto giuridico, un contratto, dove il proprietario di un fondo rustico concede a un “enfiteuta” il diritto di utilizzarne, goderne e ricavarne del reddito, a patto di migliorare le condizioni e prendersi cura del terreno, pagando un canone periodico in forma pecuniaria o in prodotti naturali.
Vincenzo Simoncelli scriveva, nel 1888, un trattato dedicato proprio a questa forma contrattuale, e nell’epilogo ne sanciva con singolare affetto l’importanza storica e giuridica, testimone dell’evolversi delle leggi, degli uomini e della società:
È meraviglioso come quasi nessun contratto meglio di questo porta nella fisionomia, attraverso i secoli, i lineamenti dei secoli, nessuno riassume nelle contraddizioni stesse dalle disposizioni vigenti i risultati di una lotta lunga, non cessata ancora, dal lavoro anelante alla proprietà terriera e della resistenza dei proprietari terrieri.
Ma da dove deriva il termine Enfiteusi?
Troviamo nel latino tardo il termine EMPHYTEUSIS, preso in prestito dal greco antico ἐμφύτευσις, che indicava già un contratto di locazione su un terreno, concesso il tempo necessario per piantare alberi a rendita e vederne nascere i frutti (e goderne in termini di ritorno economico, ovviamente).
Sempre nel greco antico, la parola alla base è ἐμφυτεύω, “impiantare, innestare”, rimandando all’ambito agricolo.
Scomponendo il termine ulteriormente, troviamo come esso sia composto da ἐμφῠ́ω, “impiantare”, unito alla particella –τος e a φῠ́ω, “produrre, fare crescere”.
Dunque, la parola è strettamente legata all’ambito agricolo, e reca in sé l’obbligo cui l’enfiteuta sarà chiamato a rispondere: la cura del fondo, pena la perdita di tutti i diritti acquisiti sul terreno stesso.
Nel diritto romano questa tipologia contrattuale venne assorbita da una precedente usanza greca, nel periodo in cui si vide il fiorire dell’economia delle province africane; troviamo traccia di una forma di enfiteusi ante litteram, l’ager victigalis, di codificazione giustinianea, che ci parla della concessione, per cento anni o in perpetuo, con una tassazione.
Nel periodo basso imperiale si iniziò a parlare di ius emphyteuticum, e cioè la concessione di terreni pubblici a privati.
Gradualmente, da contratto prettamente attinente al diritto pubblico, lo ius emphyteuticum passò a contratto privato, cambiamento di rotta favorito sia dalla crisi fondiaria che dall’ancora incerta distinzione tra patrimonio pubblico della Corona e patrimonio privato del principe o del signore – che spesso venivano confusi, è facile confondersi del resto.
Per riassumete i caratteri comuni di queste forme di enfiteusi, che varranno, in parte, anche per tutto il periodo successivo:
- L’enfiteuta ha il pieno godimento del fondo, può mutarne la cultura e la destinazione e ne fa suoi i frutti;
- Può trasferire il suo diritto agli eredi, senza limite alcuno; può alinarlo, sia per atto tra vivi, sia mortis causa; può ipotecarlo, può gravarlo di servitù, le quali peraltro durano finché dura il diritto enfiteutico;
- Deve conservare il fondo in buono stato e risponde delle deteriorazioni, ma può compensarle con i miglioramenti apportati al fondo stesso;
- Sopportai pesi gravanti il fondo e con la quietanza delle imposte deve dare al proprietario una renditaannua fissa in corrispettivo delle utilità che il dominus gli ha ceduto;
- Se per tre anni non paga il canone (per due, trattandosi di enfiteusi ecclesiastiche), senza bisogno di messa in mora, ha luogo la devoluzione, che fa perdere all’enfiteuta anche le migliorazioni introdotte sul fondo;
- Se vuol rendere il suo diritto non lo può senza consenso del proprietario, il quale ha due mesi di tempo per esercitare il suo diritto di prelazione, e non esercitandolo ha diritto di percepire la quinquagesima del prezzo. Senza consenso del proprietario non può effettuare neanche altro modo di alienazione; ma in questo caso senz’obbligo di quinquagesima. Peraltro il proprietario non può negare il suo consenso se non quando il nuovo enfiteuta non sia in grado di pagare il canone, o gli sia negato di acquistare il diritto enfiteutico. Il consenso è infine richiesto anche per la materiale divisione del diritto enfiteutico.
E manca un aspetto fondamentale: l’enfiteusi era una vera e propria forma di emancipazione per il cittadino. Era un mezzo di elevazione sociale, cui certo bisognava rispondere con pari inclinazione al lavoro manuale.
E d’altro canto, era un mezzo per facilitare la gestione di ampi possedimenti e garantirne la continua reddittività, essendo la cura del fondo uno dei capisaldi contrattuali che l’enfiteuta era chiamato ad onorare.
Anche per queste ragioni, l’Enfiteusi venne ampliamente utilizzata per tutto il medioevo, fino all’età moderna, pur vedendo mutare gradualmente la propria base giuridica e risentendo degli influssi feudali, ben diversi da quelli che ne avevano posto le basi nella legislazione romana.
L’Enfiteusi trovo ampio spazio nella legislazione illuminata di Pietro Leopoldo di Toscana, che tra il 1762 e il 1771, impose una netta distinzione tra sistema feudale ed Enfiteusi, trattando quest’ultima quale istituzione, e regolamentandola di conseguenza.
Nel periodo Napoleonico, tuttavia, sulla scia della volontà di agevolare la libera circolazione di beni, merci, ricchezze, questa forma di contratto rischiò l’estinzione.
A partire dal 1790 tutti gli antichi diritti perpetui d’Oltralpe, come il bail a rentee il bail a cense, vennero aboliti, e l’Enfiteusi subì la medesima sorte.
Passata la burrasca e spenti gli animi rivoluzionari, quatta quatta l’Enfiteusi ritornò nel Codice Civile dell’Italia post-unitaria, nel 1865, agli art. 1556-1557; ovviamente le differenze rispetto all’originaria istituzione romana erano diverse:
- L’Enfiteusi è un contratto col quale si concede in perpetuo o a tempo, un fondo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare al concedente un’annua determinata prestazione in denaro o in derrate;
- L’enfiteuta deve pagare le imposte e sostenere tutti gli altri oneri che gravano il fondo; e, alla sua volta, fa suoi tutti i prodotti e le accessioni, e ha gli stessi diritti che avrebbe il proprietario quanto al tesoro e alle miniere;
- L’enfiteuta può disporre del fondo e delle sue accessioni così per atto tra vivi, come per atto di ultima volontà;
- Per la trasmissione del fondo enfiteutico, in qualsiasi modo avvenga, non è dovuta alcuna prestazione al concedente (laudemio);
- Ogni 29 anni il concedente può chiedere la ricognizione del proprio diritto;
- L’enfiteuta può sempre redimere il fondo enfiteutico (affrancazione) mediante il pagamento del canone capitalizzato, sulla base dell’interesse legale;
- Il concedente può chiedere la devoluzione del fondo, qualora l’enfiteuta non preferisca di redimerlo, se l’enfiteuta dopo una legittima interpellazione, non abbia pagato il canone per due anni consecutivi, ovvero se l’enfiteuta deteriori il fondo, o non adempia alle obbligazioni di migliorarlo;
- Nel caso di devoluzione, l’enfiteuta ha diritto a compenso per i fatti miglioramenti, nel limite della minor somma tra lo speso e il migliorato.
Ma tornado al principio: abbiamo visto come l’Enfiteusi sia stata musa ispiratrice per musicisti e compositori; ebbene lo è stata anche per letterati e poeti, che ne hanno fatto sapiente uso metaforico nelle loro opere.
Ne ricordiamo uno, Salvator Rosa, nato nel 1675 a Napoli e forse più noto come pittore, definito da Benedetto Croce “un ingegno e di un’indole fuori dall’ordinario”, fu anche prolifico poeta.
Nelle sue Satire, edite per la prima volta nel 1694, egli fa ampio utilizzo della propria cultura classica, narrando in affilati versi le stesse figure mitologiche e le medesime personificazioni protagoniste delle opere pittoriche dipinte in parallelo.
La terza satira descrive la decadenza della società a diversi livelli; qui Rosa parla anche dei propri colleghi pittori, spesso troppo intenti a guadagnar fama più che ad impratichirsi nell’arte, con risultati quantomai deludenti, tanto da prendere in perpetuo canone l’ozio artistico e mentale:
Con mio grave stupor contemplo e medito
che quasi sempre ogni pittor peggiora
quando comincia ad acquistare il credito,
perché, vedendo che più d’un l’onora
e ch’hanno facilmente esito e spaccio
le cose che dipinge e che lavora,
del faticar più non si prende impaccio
e, presa la pigrizia in enfiteusi,
dolcemente diventa un asinaccio.
Bibliografia
Enfiteusi, in GDLI, UTET (accessibile online).
DELI 2 s.v. enfiteusi (accessibile online).
Emphyteusis, in A Latin Dictionary. Founded on Andrews’ edition of Freund’s Latin dictionary. revised, enlarged, and in great part rewritten by. Charlton T. Lewis, Ph.D. and. Charles Short, LL.D. Oxford. Clarendon Press. 1879.
ἐμφύτευσις in (a c. di) Liddell & Scott, A Greek–English Lexicon, Oxford: Clarendon Press, 1940.
Berio, Adolfo. “L’enfiteusi Nel Nuovo Codice Civile.” Il Foro Italiano, vol. 72, 1949, pp. 109/110–113/114. JSTOR, www.jstor.org/stable/23142754.
Valenti, Ghino, L’enfiteusi E La Questione Agraria In Italia E In Irlanda, in Giornale Degli Economisti, vol. 4, no. 1, 1889, pp. 36–58. JSTOR, www.jstor.org/stable/23217521.
Simoncelli, Vincenzo, L’enfiteusi, Tip. di Pietro Agnelli, 1888.
Cascio, Salvatore Orlando, Studi sull’enfiteusi, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo, Vol. XIII, Palermo, Tip. Michele Montaina, 1951.
ROSA, Salvatore, di Tomaso Montanari, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 88 (2017), Treccani (accessibile online).
Satire di Salvator Rosa, con le note d’Anton Maria Salvini e d’altri ed alcune notizie, appartenenti alla vita dell’autore, II edizione, Amsterdam (Roma), 1781.
Image credits: https://www.foliamagazine.it/luglio-iconografia-medioevo/
Milano, 1988. UX Designer e Project manager, dottoressa in Filologia Moderna. Appassionata di vino, cose vecchie e storia della lingua.