La letteratura è sempre stata attratta dal mondo del lavoro, del quale ha rappresentato storture giuridiche con una plasticità impossibile da raggiungere anche per il migliore tra i saggisti. In questo articolo vogliamo proporvi una rassegna di titoli strettamente legati a questo tema.
La capacità di molti autori di connettersi con il proprio tempo ci ha regalato straordinari affreschi delle drammatiche condizioni vissute dai lavoratori in determinati periodi storici, e per certi versi ancora oggi per certi tipi di lavoro o in alcune parti del mondo.
L’interesse della letteratura per il mondo del lavoro è manifestazione dell’interesse verso l’uomo, che la letteratura condivide con il diritto: il diritto, difatti, è uno strumento teso alla preservazione e tutela della dignità umana; e la letteratura – come ogni altra forma d’arte – è il veicolo con il quale l’umanità ha espresso con maggiore incisività in cosa consistesse tale dignità.
Il primo romanzo di questa rassegna è Uomini e topi di John Steinbeck, ambientato nell’America rurale degli anni Trenta.
Il brano che segue descrive la costituzione di un rapporto di lavoro in un contesto storico e giuridico del tutto privo di garanzie per i lavoratori. Il datore di lavoro è “il capo”, e la sua volontà va ben oltre i confini del mero potere direttivo. I lavoratori si adattano allo svolgimento delle mansioni disponibili, volta per volta, nell’ambito di rapporti di lavoro tanto precari da condannare a una vita vagabonda.
Il capo ripose ostentatamente il taccuino in tasca. Infilò i pollici nella cintura e ammiccò con un occhio semichiuso. «Dimmi un po’… cosa mi stai rifilando?» «Eh?» «Voglio dire, qual è il tuo tornaconto con lui? Portargli via la paga?» «No, certo che no. Perché credete che lo voglio fregare?» «Be’, non ho mai visto nessun uomo darsi tanta cura per un altro. Voglio solo sapere qual è il tuo interesse.» «È… è mio cugino,» disse George. «Ho detto alla sua vecchia che mi sarei preso cura di lui. Quando era piccolo un cavallo gli ha dato un calcio in testa. Ma è a posto. Solo, non è una cima. Ma può fare tutto quello che gli ordinate.» Il capo fece una mezza giravolta. «Be’, sa il Signore che non ha bisogno del cervello per sollevare i sacchi d’orzo! Ma non cercare di imbrogliarmi, Milton. Vi tengo d’occhio. E perché ve ne siete andati da Weed?» «Era finito il lavoro,» disse George con prontezza. «Che tipo di lavoro?» «Noi… noi abbiamo scavato un pozzo nero.»
Quello che manca ai protagonisti di Uomini e topi è l’opportunità di progettare il proprio domani grazie alla stabilità economica che un lavoro duraturo, anche se subordinato, potrebbe offrire.
La prospettiva che sognano è quella di rendersi autonomi: ossia di passare di rango attraverso l’acquisizione di una proprietà terriera. Lennie e George non nutrono neppure la speranza di poter migliorare la propria condizione di lavoratori: per vivere meglio, devono trasformarsi in proprietari terrieri.
La prospettiva di una stabilità nel lavoro subordinato è, invece, quella che intravedono alcuni protagonisti del romanzo E le stelle stanno a guardare di Archibald Joseph Cronin.
Il romanzo è ambientato tra la Prima guerra mondiale e gli anni Trenta, in una cittadina fittizia in Galles, nella contea Northumberland, ai confini tra Inghilterra e Scozia. Gli abitanti della cittadina dipendono dall’attività di una miniera che arricchisce alcuni, sfruttando il lavoro di molti.
In questa scena, il giovane Davide assapora un pasto caldo, offerto da una mano amica, dopo un lungo periodo di ristrettezze dovuto al protrarsi dello sciopero indetto dal gruppo di minatori a cui appartiene la sua famiglia:
In questo mondo pieno di bellezze e di dovizie, si era introdotto furtivo in un orto per rubarvi una rapa e calmare gli stimoli della fame. Appoggiò il capo a una mano. Sorse in lui l’appassionato desiderio di fare qualchecosa… qualchecosa… qualchecosa che servisse ad abolire tanta ingiustizia; che servisse ad alleviare i mali dell’umanità, a sanare l’umanità. Qualche cosa si doveva pur trovare. Risolse fermamente di cercarla. Una lagrima gli cadde dagli occhi nel sugo del cosciotto […].
Nel meraviglioso affresco di Cronin i lavoratori combattono per migliorare le condizioni del proprio lavoro e per mettere i propri figli in condizione di avere un lavoro migliore.
Questa dimensione di lotta, per la quale il luogo di lavoro è la scacchiera su cui giocarsi il proprio futuro e il futuro delle generazioni che verranno, si stempera nello sconforto del protagonista del romanzo Memoriale di Paolo Volponi. Qui il lavoro è una trincea che ti logora, fino a spegnerti. Nella prospettiva del protagonista, la fabbrica è un luogo statico che non può essere messo in discussione, al pari di altri luoghi da sempre fissi nella loro immobilità.
La fabbrica, grandissima e bassa, ronzava indifferente, ferma come il lago di Candia in certe sere in cui è solo, in mezzo a tutto il paesaggio, ad avere luce. […] Io pensavo che una fabbrica avesse bisogno di movimento e quindi di cortili e di spazi, un poco come le officine dei meccanici, dove gli operai in tuta trafficano sempre tra il banco, le macchine e la strada. […] La fabbrica invece era immobile come una chiesa o un tribunale […].
Ma la fabbrica come simbolo archetipico del luogo di lavoro non si è dimostrata immobile e duratura quanto le chiese e i tribunali.
Le generazioni più recenti sono vittime dell’inganno che allontana dalla catena di montaggio per inchiodare alla catena di un precariato senza sogni; di un lavoro che è subordinato ma finge di non esserlo; di un futuro che è un progetto ad horas.
Il prodotto lascia il posto (letteralmente, in materia di lavoro) al servizio, la fabbrica è sostituita dall’open space, la postazione in catena di montaggio è adesso una scrivania, l’alienazione è mutata in rassegnazione, a volte in vergogna.
E i lavoratori si ritrovano, così, bloccati in un ascensore sociale che è ormai l’unica cosa rimasta davvero ferma.
Ho iniziato a lavorare in un call center. Quei lavori disperati che ti vergogni a dire agli amici. «Cosa fai?» E tu: «Be’ mi occupo di promozione pubblicitaria».
Che meraviglia l’italiano, altro che giochi di prestigio.
Il mondo deve sapere, Michela Murgia
Il massimo che riesco a pensare è a quello che dovrò fare nelle prossime ore. Futuro prossimo. Molto prossimo. Verso le sei non so perché la gente inizia ad arrivare al bar. Uno dietro l’altro entrano a getto continuo e divento un frullino automatico: caffè, cappuccino, tè, caffè, cappuccino, tè. Visto che Mario non torna mi tocca fare anche la cassa. Vado avanti fino alle sette e mezza, quando finalmente Mario rientra dietro al bancone. In un paese normale sarebbe stata un’ora e mezza di straordinario, ma il contratto prevede quattro ore a giornata, tutto il resto sono cazzi tuoi. Mario è uno preciso.
Dimmi che c’entra l’uovo, Fabio Napoli
Il lavoro precario di oggi non è solo quello rurale, come raccontano Michela Murgia nel romanzo Il mondo deve sapere (il primo brano) e Fabio Napoli in Dimmi che c’entra l’uovo (il secondo brano).
E il precariato esistenziale si è esteso ormai anche al lavoro stabile.
Il compimento della parabola è ottimamente descritto nel racconto Per fortuna il Funzionario Commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco di David Foster Wallace, tratto dalla raccolta La ragazza dai capelli strani.
Se George e Lennie vivevano in simbiosi le loro giornate, qui invece le esistenze del Vice Presidente Responsabile e del Funzionario Commerciale, sono destinate a non incrociarsi mai. Eppure si svolgono in gran parte nello stesso luogo (l’edificio che ospita l’azienda) e nello stesso tempo (la giornata dedicata al lavoro, resa interminabile dagli straordinari). Tra i due – ci avverte l’autore – c’è “lo stesso tipo di somiglianze di cui godono le rette parallele”.
Al contrario delle rette parallele, però, i protagonisti di questo racconto alla fine si incrociano; e lo fanno nel momento drammatico in cui la morte li rende nuovamente umani.
La scrittura di questo racconto è asettica come il contesto in cui si svolge la vicenda: un luogo di lavoro nel quale i ruoli sono così preponderanti rispetto alle persone da rendere inutili, perfino nell’ottica dello svolgimento della storia, l’indicazione dei nomi dei protagonisti.
I lavoratori sono individui letteralmente assorbiti dal contesto, e dunque incapaci di percepire quel contesto come altro da sé: il “quarto stato” lascia il posto al “quarto stadio” di una malattia che ti fa perdere d’identità. Adesso, a essere precaria, è la loro stessa umanità.
I rapporti si limitano alle relazioni di lavoro e così perdono ogni naturale tratto di empatia; almeno fino a quando la morte non entra in scena:
Il Vice Presidente Responsabile della Produzione Estera, gorgogliando, tenendosi la cavità del petto, cadde con una lenta grazia sul pavimento del Garage Dirigenti annerito dai gas di scarico, dove passò a contorcersi. Per fortuna il Funzionario Commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco.
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