Il famoso racconto di Herman Melville sullo scrivano che “preferirebbe di no” ha suscitato tante interpretazioni: dalla disobbedienza civile a un riferimento al mito della creazione. Ma, più di ogni altra cosa, la sua inedia esistenziale e le curiose personalità degli altri personaggi ci fanno pensare pensare al modo in cui funziona ogni studio legale al mondo.
Nel 1853 Herman Melville Bartleby scrisse un celeberrimo quanto enigmatico racconto dal titolo Bartleby: the Scrivener. A story of Wall Street.
La voce narrante è un avvocato, del quale Melville non ci rivela mai il nome, che assume il giovane Bartleby come scrivano (o copista) nel proprio studio legale.
Bartleby svolge diligentemente il lavoro per cui è assunto, ma di fronte alla richiesta di svolgere altri compiti (a volte complementari rispetto a quelli di copista) esprime un educato diniego: “Preferirei di no” è la sua risposta.
Con il passare dei giorni, il diniego di Bartleby si estende a tutte le richieste: il giovane scrivano smette di fare qualsiasi cosa, trincerandosi dietro un costante e ripetuto: “Preferirei di no”.
Nello studio legale lavorano in tutto tre dipendenti, oltre a Bartleby: altri due scrivani, e un fattorino. L’avvocato è abituato a gestire le stranezze degli altri lavoratori, e anche con Bartleby cerca di mediare tra il proprio diritto di pretendere un lavoro ben fatto e un sentimento di compassione nei confronti di quel giovane, il cui atteggiamento incomprensibile sembra manifestare un disagio esistenziale.
E difatti, con il passare delle pagine, l’inerzia di Bartleby diventa totale: bivacca nello studio, non si nutre, a volte neanche risponde con il suo solito “Preferirei di no” alle domande che gli vengono poste.
Il sentimento di umana compassione prevale; e così l’avvocato, per liberarsi del giovane senza creargli problemi con la legge, trasferisce il proprio studio in un diverso stabile. Ma questo a Bartleby non basta: ormai prigioniero della sua inedia, il giovane è denunciato dai nuovi inquilini e poi condotto alle ‘Tombe’ (il carcere di New York), dove si lascia morire.
Qual è il senso di questo racconto? Quale mistero nasconde questo personaggio impenetrabile?
Si è visto in Bartleby e nel suo “preferirei di no” l’affresco di una vita solitaria; una metafora della disubbidienza civile; Giorgio Agamben e Gilles Deleuze ne hanno analizzato i comportamenti nel saggio Bartleby. La formula della creazione (edito da Quodlibet), e hanno visto nello scrivano una figura quasi messianica.
Per Agamben, Bartleby appartiene alla costellazione filosofica degli scribi: “come scriba che ha cessato di scrivere egli è la figura estrema del nulla da cui procede ogni creazione e, insieme, la più implacabile rivendicazione di questo nulla come pura assoluta potenza. Lo scrivano è diventato la tavoletta per scrivere, non è ormai nient’altro che il suo foglio bianco”.
Alcuni dati, però, colpiscono e invitano a considerare una diversa ottica, eterodossa rispetto alle altre interpretazioni, e forse più pragmatica: un’ottica che cerca il significato non solo nel personaggio, ma nel complesso della narrazione; un’ottica che non fornisce risposte certe, ma che suscita domande che (forse) vale la pena di approfondire. Un’ottica che cerca il significato nell’oggetto della narrazione: in quella “Storia di Wall Street” che Melville dichiara di voler raccontare.
Conosciamo Bartleby attraverso le parole di un avvocato, che è sia la voce narrante che il punto di vista del racconto: è un fatto neutro che Melville abbia compiuto questa scelta? Perchè proprio un avvocato?
L’impressione che il racconto suscita è che l’avvocato non ci parli tanto di Bartleby, ma di come Bartleby interagisce con il contesto e con le attività di uno studio legale; lo scrivano entra nella storia quando il lettore ha già appreso le dinamiche dello studio legale nel quale Bartleby sarà assunto: non sappiamo nulla di Bartleby al di fuori di quello che rifiuta garbatamente di fare all’interno dello studio o comunque di fronte alle richieste dell’avvocato che narra la sua storia.
Si può dire che il protagonista sia davvero, e solo, Bartleby?
Bartleby, già dal titolo originale, non è uno scrivano ma lo scrivano: si identifica nel ruolo e assume una dimensione archetipica.
Siamo molto distanti dal vero se ipotizziamo che Bartleby – in quanto scriba, secondo l’interpretazione di Agamben – rappresenti la parola quale strumento fondamentale del mestiere forense?
L’avvocato narrante, prima di parlarci di Bartleby, ci presenta gli altri collaboratori: di loro conosciamo il soprannome, l’età e i tratti fondamentali del carattere.
“Tacchino” è anziano e incline, soprattutto nel pomeriggio, “a dar prova di energia eccessiva”; questo lo rende in alcuni momenti meno affidabile che in altri. ‘Tacchino” tende a strafare, ad arrabbiarsi, a perdere il controllo.
“Pince-nez”, invece, giovane e ambizioso, si pavoneggia con presunte amicizie importanti: vorrebbe essere altro, non un semplice copista.
“Zenzero”, infine, è “un monello di circa dodici anni” che frequenta l’ufficio “come studente di legge, fattorino e scopatore”.
Non sono forse anche loro degli archetipi?
L’impressione che il lettore ricava è che tutti i personaggi (inclusa la voce narrante) rappresentino, nel loro insieme, qualcosa e non qualcuno; e che questo qualcosa abbia il proprio tratto unificante nel contesto in cui interagiscono: la voce narrante parla di ciò che fa, raccontando delle persone con cui agisce, e dei luoghi in cui l’azione del proprio mestiere (quello di avvocato) si svolge.
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Viene da chiedersi, allora: è un’eresia pensare che questo racconto sia (o comunque possa essere letto come) una metafora della professione forense?
La voce narrante ci parla di sé e dei propri collaboratori e, forse, in questo modo ci rappresenta i demoni di un mestiere: la voglia di fare, che si trasforma in un maldestro strafare quando non è adeguatamente controllata (Tacchino); l’ambizione, che diventa vizio quando confina con la millanteria (Pince-nez); “l’andare a bottega”, che conduce attraverso un praticantato, a volte fin troppo umile, all’esercizio della professione (Zenzero); il contrasto tra ciò che si percepisce come profondamente giusto (lasciare lo stabile piuttosto che denunciare un giovane sventurato) e ciò che si riconosce come perfettamente legale (mandare il giovane in galera per vagabondaggio).
In quest’ottica, la formula di Bartleby, di fronte alla quale, l’atteggiamento della voce narrante è inspiegabilmente paziente, è una metafora della resistenza al cambiamento, che gli avvocati sperimentano (e contrastano) durante la loro vita professionale.
Non a caso, come nota Deleuze, la formula di Bartleby è estranea al lessico originario dell’avvocato e dei suoi collaboratori, ed entra in scena solo con lo scrivano.
Questa formula determina una stasi infinita; un vuoto; “non una volontà di nulla, ma l’avanzare di un nulla di volontà”, per ricorrere alle parole del filosofo francese.
Una sorta di non liquet, verrebbe da pensare.
“No, per il momento preferirei non cambiar nulla”, dirà a un tratto lo scrivano con una variazione minima del suo cortese ma fermo rifiuto che qui si manifesta, in maniera più chiara, come resistenza al cambiamento.
La medesima resistenza al cambiamento che si oppone all’avvocato quando l’ordinamento disconosce diritti di cui l’avvocato intravede la profonda ‘giustizia’, nelle pieghe nascoste della ‘legge’: ed è come se gli dicesse, con la medesima pacatezza inerte e assoluta di Bartleby “Preferirei di no”.
Ma è proprio a causa di questa formula che lo scrivano muore…
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