La vita
Alfredo Rocco, nato a Napoli il 9 settembre 1875, si laureò nel 1896 a Genova quindi insegnò diritto commerciale a Urbino dal 1899 al 1902, quando, da professore straordinario, prese servizio a Macerata; nel 1905 si trasferì a Parma, dove sostituì Giuseppe Chiovenda nell’insegnamento di procedura civile e dove conseguì l’ordinariato (1906). Spostatosi a Palermo nel 1908, insegnò procedura civile e ordinamento giudiziario fino al 1910, quando, vinto il concorso a Padova, riprese l’insegnamento di diritto commerciale che tenne fino al 1925. Dunque insegnò all’Università di Roma legislazione economica e del lavoro fino al 1930, quando succedette a Cesare Vivante nella cattedra di diritto commerciale che tenne fino alla morte avvenuta a Roma il 28 agosto 1935.
Da sempre interessatosi alla politica, dopo una fase vicina al partito radicale, approdò al partito nazionalista, confluendo nel 1923 a quello fascista: ne seguì la presidenza della Camera (1924-25), nel 1925 fu nominato al dicastero di Giustizia.
Gli interessi scientifici
Rocco si interessa al diritto commerciale come una branca del diritto che trova la sua forza nella sola autorità dello Stato; anche per questo non ritiene che il codice di commercio possa costituire un privilegio di classe: la tutela dei non commercianti è primario obbiettivo dello Stato, il quale deve in altri testi mirare all’equilibrio fra tutte le classi.
Dichiaratamente antiliberale sul piano delle scelte politiche, aderisce però convintamente, per quasi tutta la vita, alla concezione liberale del processo civile, al cui centro colloca il principio dispositivo: lo Stato nel processo non attua il diritto oggettivo, ma interviene a soddisfare richieste inoltrategli dai titolari degli interessi.
La costruzione giuridica dello Stato fascista
Le misure protezionistiche, il sistema corporativo, la riforma agraria e le bonifiche, la magistratura del lavoro, il colonialismo, l’intesa con la Chiesa cattolica sono per lui obiettivi politici già nel 1914. Rigetta con decisione l’individualismo socialista e liberale e l’ipotesi di una società sovranazionale.
Per Rocco la Nazione costituisce allo stesso tempo il presupposto e il fine per il superamento degli interessi particolari, l’antidoto contro gli interessi egoistici e individuali:
Ci si era dimenticati di questo particolare: che, oltre l’individuo, oltre la classe, oltre l’umanità, esiste la nazione, la razza italiana; e che l’individuo non vive solo nella classe e non vive affatto nella società di tutti gli uomini, ma vive invece e principalmente in quell’aggregato sociale, costituito dagli uomini della stessa razza, che è la nazione (Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, 1914, p. 69).
Il rapido aumento della popolazione, unito al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la diffusione della proprietà, sono tutti strumenti per la realizzazione del programma nazionalista e imperialista che deve darsi l’Italia, dichiaratamente aggressivo ed espansivo.
L’accordo con la Chiesa risulta strumentale alla realizzazione del programma:
«In avvenire sarà forse possibile andare più in là, e si potrà stabilire, forse, con la Chiesa cattolica una, sia pur tacita, intesa, per cui la organizzazione cattolica possa servire alla nazione italiana per la sua espansione nel mondo» (p. 82).
«Candido giurista inesperto di storia»: così Piero Gobetti (cit. in P. Gobetti, La rivoluzione liberale, 1924, 1973, p. 132), con sufficienza, marchia Rocco per rigettarne la proposta – avanzata il 15 novembre 1920 a Padova nel discorso inaugurale per l’anno accademico 1920-21 – di integrare nella struttura costituzionale dello Stato le organizzazioni sindacali e di istituire una magistratura del lavoro. «Mite e gentile […] autorevole eppur cordiale»: così Giuliano Vassalli ricorda Rocco, suo professore di diritto commerciale nell’autunno del 1934, rettore dell’Università di Roma, ormai ex ministro.
Il ministro e il legislatore
Rocco segna comunque con la sua presenza momenti cruciali della storia dell’Italia fascista. Neopresidente della Camera, eletto per la XXVII legislatura, il 30 maggio del 1924 presiede la seduta in cui Giacomo Matteotti per oltre un’ora e mezza, tra urla e altre intemperanze, denuncia la validità delle elezioni a causa delle violenze perpetrate in precedenza e contesta anche la validità della procedura di convalida delle nomine adottata dal presidente della Camera e, in un passaggio, lo stesso modo di presiedere la seduta.
Tre giorni dopo il discorso di Mussolini alla Camera dove si assunse la responsabilità “morale e politica” dell’assassinio di Matteotti, punto di demarcazione del passaggio alla dittatura, Rocco lascia la presidenza della Camera per assumere la responsabilità del ministero della Giustizia.
Da ministro, Rocco guiderà la costruzione del nuovo Stato fascista con le leggi per la difesa dello Stato e con quelle sulla rappresentanza politica, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, sulla riforma forense, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro.
La Carta del lavoro, la statalizzazione del Gran consiglio del fascismo – con la creazione della nuova categoria delle leggi costituzionali –, le disposizioni sull’istruzione del 1931 – con l’imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo – disegnano il profilo costituzionale del nuovo Stato fascista, forse ancora di più di quanto non lo segnino il codice penale, con il ritorno alla pena di morte, e il codice di procedura penale.
Alla fine però saranno i suoi Codici quelli che meglio hanno sfidato il tempo di tutta la sua elaborazione lunga una vita.