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61. Storie di ordinaria Cancelleria (1941)

61. Storie di ordinaria cancelleria (1941)

Questa storia ci accomuna un po’ tutti.

Siete mai stati nella Cancelleria di un Tribunale? O anche solo in qualche altro tipo di ufficio pubblico… che so: l’Agenzia delle Entrate, la Motorizzazione, l’Inps, (ma mettiamoci dentro anche le Poste et similia), etc.?

Se siete abituè della location, non dovreste avere problemi. Sapete quello che dovete fare, vi muovete con nonchalance e fare felpato. Vi avvicinate all’attendente, scegliendo con cura quello che sapete faccia al caso vostro. Lo abbindolate con qualche complimento di circostanza, espletate l’incombenza e soddisfatti tornate alla vita.

Succede però che a volte simili attività vengano svolte da novelli o che si sia novelli del posto. Si entra con circospezione, chiedendo scusa solo per avere osato respirare, il tono di voce si fa mansueto come un cucciolo di tigre alla prima ora di vita, gli occhi si dilatano e assumono la forma di una bolla di sapone, di nuovo si chiede scusa e poi si azzarda l’imponderabile: la richiesta di informazioni.

A quel punto le opzioni sono due.

(1) Può essere che l’attendente sia persona gentile e d’altri tempi, che colga come un salvatore lo smarrimento nei gesti e nello sguardo del richiedente e che lo accolga con un sorriso che scalda il cuore, dando tutta la sua disponibilità. A quel punto, espletata l’incombenza, si torna soddisfatti alla vita.

(2) Può essere che l’attendente non ne abbia voglia, che annusi come un predatore la paura nello sguardo e nei gesti del richiedente e che lo fulmini con un ghigno che atterrisce le ossa, ignorandolo senza pietà.

Certo tra questi due poli c’è una spessissima area grigia. Ma a tutti sarà capitato di viaggiare da un estremo all’altro.

Nella mia vita ho incontrato molti più esemplari del primo tipo (quelli con il sorriso) che del secondo (quelli con il ghigno), ma per quanto voglia molto bene ai primi, i secondi io li odio peggio dei piccioni. Glielo vorrei gridare in faccia: “Ma lei lo sa che il suo stipendio glielo pago io con le mie tasse?!” e altre turpi banalità, ma mi trattengo (non sempre dai…).

C’è pure da dire – mettendomi nei panni altrui – che ci sono giornate storte, che è comprensibile un po’ di antipatia e non bisogna farne una colpa.

D’altronde, uno può essere nervoso per centomila motivi (mi permetto qualche esempio: il caldo, il freddo, i lavori al piano di sopra, la ragazza che rompe, il ragazzo della ragazza che strarompe, l’Avellino ha preso gol all’ultimo minuto in fuorigioco, il corriere che ha sbagliato l’orario di consegna e devo andare a ritirare il pacco a un miliardo di chilometri dal centro, il computer che non si accende, il governo fa schifo, l’Avellino ha perso, il tram non passa, i colleghi urlano, quell’altro non capisce mai niente, l’Avellino è fallito, lo yogurt è scaduto di nuovo, word che si blocca e ti fa perdere il documento a cui hai lavorato tutto il giorno e come un cretino non lo avevi mai salvato,  ho dimenticato l’abbonamento dei mezzi, il Secco è chiuso, una insalata 10 euro, doppi  spazi, l’Avellino è rifallito, il telefono è sempre scarico e il cavetto si è rotto, mi hanno fregato la bici di nuovo, a telefono non rispondi mai, le tasse, oppure semplicemente l’ennesimo rompi* che mi viene a chiedere la solita informazione, BASTA!!!!!).

Dicevo, quindi che bisogna essere comprensivi se qualche volta si ha a che fare con impiegati (ma vale per tutti i pubblici ufficiali) un po’ nervosetti. L’importante è essere rispettosi, almeno fin dove sia ciò possibile dalla umana e divina pazienza.

Comunque tutto questo serviva a introdurre una Massima dal Passato spettacolare, raccontata da una sentenza della Corte di Cassazione del 1941

La storia di un litigio nella cancelleria del Tribunale di Palermo il 2 ottobre 1939. Il 2 ottobre era all’epoca il primo giorno dopo la sezione feriale (comodini…) e l’avvocato Corrado Morvillo si presenta  di buon ora in Cancelleria per recuperare alcuni documenti che gli servivano per una udienza di quella stessa mattina (certo che pure Morvillo però a perdersi i documenti…).

Morvillo entra e – la sentenza dice – “senza salutare” si dirige da solo direttamente verso l’armadio dove sono i fascicoli di parte. Mentre sta per avvicinarsi al suo, una voce inattesa lo interrompe: la voce di Vincenzo Riela, nuovo preposto alla cancelleria.

A quel punto, la sentenza riporta il seguente colloquio tra i due personaggi (vi copio il passaggio)

Dopo questo allegro dibattito, l’avvocato Morvillo esce dalla stanza con un “arrivederci” che – dice sempre la sentenza – era un po’ “strascicato“, entra in un altro ufficio e rivolgendosi all’ amanuense Giovanni Sangiorgi (bellissimo “amanuense) gli dice: “con certi fessi…“.

Ora non si sa se il Riela aveva sentito o meno questa espressione, fatto sta che questi irrompe nel corridoio e dice all’avvocato: “Senta Avvocato, l’ultimo usciere del Tribunale è un suo padrone“. E a quel punto Morvillo, che non ne poteva davvero più, gli molla un ceffone in pieno volto.

Apriti cielo!

Processo per oltraggio a pubblico ufficiale a carico del povero Morvillo (sì mi schiero apertamente con lui!).

E voi che esperienze avete con gli uffici pubblici? E con le cancellerie? E voi cancellieri – lo so che leggete – che esperienze avete con gli avvocati? Anche noi siamo delle brutte gatte da pelare, ma credeteci non lo facciamo per cattiveria, è il cliente che…

Sono curiosissimo di conoscere le vostre storie di ordinaria cancelleria  e, mentre attendo di conoscere le vostre esperienze (potete scrivere a info@massimedalpassato.it ma anche sulla pagina Facebook), vi lascio alla lettura della sentenza, dal finale sorprendente… con certi fessi…

 

Il 2 ottobre 1939, nel quale giorno ricadeva la prima udienza civile del periodo ordinario del distretto della Corte di Palermo, verso le ore 10 antimeridiane, l’Avv. Corrado Morvillo, che a casa non aveva potuto trovare alcune produzioni civili che gli occorrevano per tale udienza,  si recò all’Ufficio del ruolo generale di quel Tribunale per farne ricerca.

Egli, a quanto pare, entrò senza salutare, e si diresse senz’altro verso l’armadio in cui sono conservati i fascicoli delle cause civili depositati dagli avvocati. Tale contegno però dispiacque al funzionario che da poco tempo era stato preposto a tale ufficio, l’aiutante di Cancelleria Riela Vincenzo, e così si svolse tra i due il seguente colloquio:

Riela: Questo non è un fondaco, ma un ufficio; altra volta dovete rivolgervi al funzionario.

Morvillo: Ma si è fatto sempre così.

Riela: Qua ci sono io e si deve fare come è giusto, rivolgendosi al funzionario.

Morvillo: Poiché si cambia sistema, si può mettere un cartellino; ad ogni modo, la prossima volta mi rivolgerò a lei; lei si alzerà e dovrà venire a servirmi, e così ci guadagnerà questo.

Riela: I funzionari non servono nessuno, per servirvi avete il cameriere.

Morvillo: Tutti i funzionari servono il pubblico; lei parla così perchè abusa della sua qualità di pubblico ufficiale ed io non rispondo. Quando sarà fuori di qui, sono a sua disposizione per continuare la discussione.

Riela: Ho parlato come funzionario, ma sono anche uomo; (e così dicendo battè le mani sul tavolo).

Indi l’Avv. Morvillo, aiutato dallo amanuense Ardizzone Francesco (del pari addetto all’ufficio del ruolo generale) fece la sua ricerca ed andò via salutando tutti i presenti colla parola: «arrivederci», che al Cancelliere Riela sembrò pronunciata strascicando; ma tale impressione non ebbero le altre persone che si trovavano nell’ufficio (cioè i testi Ardizzone e Avv.ti Scavuzzo Pietro e Bono Filippo).

L’Avv. Morvillo subito si diresse al vicino ufficio dello archivio, ed, avvicinatosi allo sportello di esso, l’altro amanuense Sangiorgi Giovanni, che vi era addetto, avendolo visto agitato, gli domandò che cosa avesse, ed egli rispose: «con certi fessi», parole che, però, non furono intese dal Riela, che non era lì in quel momento.

Costui intanto si alzò dal suo posto, uscì dall’ufficio del ruolo generale e raggiunse l’Avv. Morvillo davanti allo sportello dell’archivio, dove era già avvenuto lo scambio di quanto testé riferito, e che, come si è detto, non era stato da lui percepito, e rivolto all’Avv. Morvillo, gli disse: «Senta avvocato, l’ultimo usciere del Tribunale è un suo padrone», e questi, per tutta risposta, gli diede uno schiaffo, alla presenza di parecchie persone che si trovavano là vicino.

La stessa Corte poi ha ritenuto che “il delitto contestato all’imputato è stato solo quello di oltraggio con violenza, cioè commesso mediante lo schiaffo, e non già con le parole pronunziate durante la prima fase dell’incidente, nelle quali il P. M. non ritenne di riscontrare gli estremi di alcun reato”.

Dati tali accertamenti della Corte di merito, chiaro si palesa il difetto di contraddizione e l’errore logico-giuridico da cui apparisce viziata la motivazione della impugnata sentenza. Ed infatti, dopo avere escluso che nella prima fase dell’incidente potessero riscontrarsi nell’atteggiamento e nelle parole del Morvillo gli estremi di un oltraggio, è palesemente contraddittorio ed antigiuridico il volersi riferire a tale frase per ritrovare un oltraggio con violenza nello schiaffo dato dal Morvillo al Riela, come epilogo di quanto ebbe a verificarsi nella seconda fase dell’incidente medesimo.

Ed invero, perché sussista il reato di oltraggio, non è sufficiente che si abbia una offiesa fatta ad un pubblico ufficiale, ma occorre un nesso di causalità tra la qualità del soggetto o l’esercizio delle funzioni o del servizio e la offesa arrecata, per modo che il reato risulti esclusiva mente come una ingiusta aggressione alla persona pubblica, o reazione all’esercizio della funzione, ovvero del servizio. Occorre inoltre che la funzione od il servizio siano stati causa e non soltanto occasione dell’offesa; e che il rapporto di causalità sia reale ed effettivo, e non già puramente opinato e subbiettivo. Non basta, cioè, che il pubblico ufficiale ritenga che l’offesa gli sia stata rivolta a causa della sua qualità e funzione, ma è necessario che obbiettivamente sussista in effetti il nesso tra l’offesa e la funzione in rapporto di causalità.

Ha pertanto errato la Corte, allorché riferendosi alla prima fase dell’incidente, ha ritenuto che il Riela si reputò offeso dell’avergli l’Avv. Morvillo detto che un’altra volta si sarebbe rivolto a lui ed egli lo avrebbe dovuto servire, e non si appagò della spiegazione datagli da costui di avere usato la parola «servire» in senso inoffensivo, onde intese prepotente il bisogno di ritorcere l’offesa ricevuta, e per tale ragione uscì dall’ufficio e raggiunse il Morvillo, investendolo con la fase: “sappia avvocato, che il più umile degli uscieri è un suo padrone”. Non bastava invero che il Riela avesse ritenuto offeso il suo prestigio di pubblico ufficiale, ma occorreva che tale menomazione si fosse realmente verificata, nel quale caso soltanto si sarebbe potuto riconnettere lo schiaffo alla funzione.

Ora, a prescindere dal considerare che, se realmente il Riela si fosse sentito offeso nella sua qualità ed a causa delle sue funzioni dalle parole rivoltegli dal Morvillo nel primo episodio, avrebbe dovuto reagire immediatamente nelle forme legali, e non attendere per inseguirlo a raggiungerlo investendolo senz’altro con un grave insulto, occorre tenere presente che, come sopra si è posto in rilievo, è stato recisamente escluso che nelle parole pronunciate dal Morvillo, durante il primo episodio, compresa quella di «servire», si contenessero gli estremi di un oltraggio rivolto al Riela; e ciò non soltanto da parte del P. M., che non ne fece oggetto d’impugnazione, ma della stessa Corte di appello, che ciò ebbe esplicitamente a riconoscere. Cadono quindi le conseguenze che dalla sue sposta errata premessa la Corte di merito, contraddicendosi, ha creduto di trarre, e cioè che il Riela nella seconda fase dell’incidente avesse agito pur sempre nella qualità di pubblico affidale ed avesse voluto con l’insulto rivolto all’Avv. Morvillo ripristinare il prestigio di tale sua qualità, giacché in effetti questo non era stato mai menomato.

Nè può riconoscersi che lo schiaffo dato al Riela fosse stato inferto a causa delle sue funzioni, come epilogo di tutto l’incidente causato dal fatto che il Riela aveva in teso modificare il sistema invalso fra gli avvocati di esaminare direttamente i fascicoli, e quindi a causa di un atto inerente alle sue funzioni di Cancelliere. Esclusa in vero nel primo episodio una precedente offesa contro il Riela, tale da costituire un anello di congiunzione fra lo schiaffo e la qualità, nonché le funzioni del Riela medesimo, il nesso di causalità dello schiaffo inferto dal Morvillo al Riela nel secondo episodio non può logicamente e giuridicamente ritrovarsi che nei confronti dell’insulto, con il quale il Riela ebbe ad investire il Morvilio, il quale appunto ad esso prontamente reagì, nel modo violento suindicato.

Da ciò deriva anche che non può ritenersi che il Riela nella seconda fase dell’incidente rivestisse la qualità di pubblico ufficiale. Egli, che nella prima fase aveva lasciato cadere il preteso oltraggio, ed aveva chiuso lo scambio di parole con l’Avv. Morvillo, battendo le mani sul tavolo ed esclamando: «ho parlato come funzionario, ma sono un uomo», volle attendere che l’Avv. Morvillo uscisse dall’ufficio del ruolo, lanciargli contro la frase suenunciata, gravemente lesiva del decoro personale. Che tale fosse, è stato esplicitamente riconosciuto dalla stessa Corte di appello, che ebbe a qualificarla come «indubbiamente molto più ingiuriosa di quella usata dal Morvillo», tanto da concedere a questi il beneficio della provocazione per la eccessiva reazione del Riela.

Ora è chiaro che con un tale contegno, certamente non appropriato ad un pubblico funzionario, il Riela ebbe ad agire, non già nella qualità di pubblico ufficiale, ma bensì in quella di uomo, cioè di privato, che poco prima aveva apertamente proclamata.

Ma in tale modo esso ebbe anche a sottrarsi a quella particolare protezione che viene accordata dalla legge al pubblico ufficiale. Tale protezione invero è dovuta alla necessità di tutelare il rispetto, che la funzione pubblica impone, e che si estende a tutti coloro che tale funzione rivestono. Ma il pubblico ufficiale, che abbandoni i limiti della dignità della pubblica funzione imposti, e, dimentico della austerità che la sua qualifica gli conferisce, trascende con parole e con atti, si spoglia della pubblica funzione, ed assume esclusivamente una responsabilità personale.

Tali principi giuridici sono stati più vòlte ribaditi da questa Corte suprema (sent. 15 novembre 1938, rel. Tomassini, ric. Crescenzi, in Giust. pen., 1939, II, col. 502 m. 541; sent. 12 marzo 1940, rel. Cantelli, ric. Montesanti, id., 1940, II, col. 901, m. 1000; sent. 2 gennaio 1941, rel. Maroni, P. M. c. Lubello), la quale ha affermato il principio che, allorché il pubblico ufficiale volontariamente decampa dall’ambito della sua funzione, e, prescindendo da questa, assume atteggiamento e condizione di parità rispetto al privato, usando mezzi o parole, da cui esuli la estrinsecazione del potere e della volontà sovrana esercitati come organo dell’ente pubblico, la reazione che a tale esorbitante atteggiamento si rivolga da parte del privato, non ricade sotto la sanzione della legge penale, che tutela il credito ed il decoro della pubblica amministrazione nei suoi rappresentanti, ma rientra nell’ordine dei rapporti privati.

Tali principi sono stati completamente disconosciuti dalla Corte di merito. Invero, per le ragioni suesposte, l’offesa fatta dal Riela al Morvillo nel secondo episodio, senza alcun preambolo che avesse potuto costituire una logica concatenazione, non poteva trarre causa dal primo episodio, in cui venne riconosciuto non essere esistita al cuna offesa al pubblico ufficiale ed a causa delle sue funzioni.

Può il Riela avere ritenuto ciò che non sussisteva, ma ciò non consentiva di porre un rapporto di causa ad effetto, là dove tale rapporto non esisteva obiettivamente. Ne deriva che la offesa fatta dal Riela al Morvillo nel secondo episodio resta isolata; non è giustificata dal bisogno di tutelare il prestigio del pubblico ufficiale, che non era stato leso; non è in rapporto con la funzione, nè con l’esercizio, nè con la causa di servizio, e non rimane se non lo sfogo di un’eccitazione nervosa del tutto personale. Lo schiaffo, quindi, non fu dato al Riela perchè era Aiuto cancelliere e nella sua qualità aveva negato un atto del suo ufficio, ma fu dato esclusivamente per il grave insulto da lui rivolto al Morvillo, e mediante il quale esso era uscito fuori del campo di protezione accordatagli dalla legge quale pubblico ufficiale.

Pertanto, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la impugnata sentenza deve essere annullata senza rinvio per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, e senza che occorra discutere gli altri motivi.

Per questi motivi, visti gli art. 537, 539, n. 1, cod. proc. pen,, annulla senza rinvio la sentenza della Corte di appello di Palermo in data 15 gennaio 1940, pronunciata nei confronti di Morvillo Corrado, perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Foro It., 66, 1941, 85

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