57. La Tazza del Piacere (1906)
Questa storia è difficile e mi suscita sentimenti contrastanti. Probabilmente è la sentenza più bella pubblicata finora su questo blog (divide forse la palma con la storia del finto soldato che inganna la vedova di guerra) e si può leggere su diversi piani.
È anzitutto una storia d’amore. Certo, un amore tradito, o meglio illuso, ma pur sempre… d’amore.
Siamo all’inizio del Novecento.
Maria Brusoni è una povera contadina di appena diciassette anni “semianalfabeta, ma dotata di grazie non comuni del corpo e dello spirito“. Vive a Binasco, sul naviglio tra Milano e Pavia. Guido Bonasegala vive nello stesso paesino,è più grande di lei e ha qualche soldo lasciatogli in eredità dal padre.
Maria lavora in casa Bonasegala e il Guido intende approfittare delle sue grazie. D’altronde “poteva facilmente esercitare su di lei tutto il fascino che non mancano di spiegare sulle inesperte fanciulle l’età giovanile, la superiorità padronale e la posizione sociale assai più elevata“.
Quando Maria si trasferisce a Milano, inizia tra i due una fittissima corrispondenza. Lui le manda lettere infuocate d’amore, copiando anche poesie spacciandole per proprie (che miserabile…), suscitando nella giovane ragazza la possibilità di un matrimonio. Lei ricambia, e spesso si incontrano. Lo fanno in aperta campagna. In uno di questi incontri Maria perde anche la verginità.
Conquistato il giovane corpo, le lettere di lui diventano più rare e fredde, mentre quelle della sedotta e abbandonata giovane fanciulla si fanno invece insistenti. Vuole rivederlo. Maria è incinta, perde il bambino, ma lui nel frattempo era sparito.
Ecco, dovete sapere che all’epoca la concezione della donna era molto molto diversa da quella attuale. La donna era, senza tanti giri di parole, considerata inferiore all’uomo. Questa condizione di inferiorità si manifestava tanto nella impossibilità di accedere alla vita pubblica e professionale, e si rifletteva nell’idea che la debolezza della donna necessitava un intervento della legge che la proteggesse dalle insidie del maschio.
All’epoca, insomma, chi “conquistava” fisicamente una donna lasciandole intendere che l’avrebbe sposata per poi abbandonarla, le doveva un risarcimento dei danni. La perdita dell’illibatezza, infatti, avrebbe reso più difficile un matrimonio, e le maldicenze popolari impossibile la ricerca di un lavoro.
Di sentenze sull’illecito di seduzione ne sono pieni i vecchi massimari. Ci vanno anche giù pesante con i “galletti” che si approfittano dei turbamenti delle giovani donne.
Nel nostro caso, il padre della ragazza aveva fatto causa al Guido Bonasegala. In primo grado, il Tribunale di Milano aveva rigettato la domanda perchè non aveva ravvisato gli estremi della “seduzione” e perché aveva accertato che molti degli incontri “peccaminosi” erano stati organizzati dalla stessa ragazza.
Il Tribunale usa questa frase fantastica nella sua drammatica concezione.
Non è questo il contegno di una ragazza che sia caduta per seduzione, bensì di quella che, gustata la tazza del piacere, vuole e si diletta a ripeterne gli assaporamenti.
La sentenza che trovate qui pubblicata è invece quella di secondo grado, della quale non vi svelo l’esito.
Dicevo all’inizio, però, che questa sentenza si può leggere su più piani. L’amore, la posizione della donna, ma soprattutto il piano letterario.
D’altronde, Massime dal Passato nasce proprio per riportare alla luce il lessico dei giudici di cent’anni fa. E questa sentenza è piena zeppa di espressioni proprie di poetici racconti. Ve ne riporto qui alcune.
Non tutte: vi lascio il divertimento di scoprirne altre (e sono assai) durante la lettura.
- Quando la Maria Brusoni così scriveva al Bonasegala, era ormai squarciato in lei il candido velo del pudore verginale della fanciulla.
- Una donna la quale si sia data ad un uomo fuori di matrimonio abbia ceduto spontaneamente all’impeto dei sensi, ovvero sedotta dall’amante abbia finito per capitolare a discrezione dopo lungo assedio o si sia lasciata espugnare dopo breve resistenza, si sente istintivamente portata a scorgere in colui che fu complice del suo fallo l’àncora della propria salvezza.
- Eccitamento di un’intensa passione schiudente l’adito alla speranza di fede imperitura e di un roseo avvenire di amore e di felicità.
- Mirava ad impossessarsi delle chiavi del suo cuore nella speranza di giungere con quelle a conquistarne il corpo.
- Quale meraviglia che la Brusoni, abboccando all’amo, si sia illusa sull’amore dimostratole dal Bonasegala, abbia dal suo canto concepito per lui una sincera e profonda passione, sì da indursi a sperare ch’egli le avrebbe serbata fede e che un giorno la loro unione verrebbe benedetta dal sacro rito?
- Non vi è forse vezzosa forosetta, la quale veda sopra di sè convergere il sorriso procace dei giovani villeggianti, che non sogni la propria fortuna e felicità?
- La legge eterna della natura che ha dato all’uomo l’attitudine d’impossessarsi, colla energia della volontà e col fascino dei sensi, del cuore e del corpo della donna, la quale nella generalità dei casi, abbandonata a sè stessa, senza il presidio delle civili istituzioni, non saprebbe trovare schermo sufficiente alla propria pudicizia ed illibatezza contro gli attacchi e le insidie della seduzione virile.
- Ne eccitò i sensi attirandola al rezzo di piante amiche, quando il solleone dardeggiava sulle bionde messi, e un senso di languore pervadendo le di lei membra ne intorpidiva le innate energie della volontà!
Be’, in effetti “il solleone che dardeggiava le messi” è estremo… lo ammetto.
Per leggere tutta la sentenza e andare a caccia di altre espressioni audaci, non resta che cliccare qui sotto nel pulsante sotto la massima.
Come sempre.. buona lettura.
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