La vita
De Luca nacque a Venosa nel 1613 (o nel 1614), studiò diritto prima a Salerno e poi a Napoli, dove si laureò nel 1635 e iniziò l’avvocatura presso il Sacro regio consiglio e la Regia camera della sommaria. Nel 1644 si trasferì a Roma, dove fu introdotto negli ambienti curiali da Niccolò Ludovisi (1610-1664), principe di Venosa e di Piombino, nipote di papa Gregorio XV e titolare di importanti incarichi di governo civile e militare. De Luca prestò opera presso Ludovisi come avvocato e come uditore, e fu in occasione di questi servigi che ebbe modo di iniziare a trattare importanti e delicate questioni feudali e giurisdizionali. Frequentò lo studio legale di Angelo Andosilla, decano delle Segnature di Grazia e di Giustizia. A Roma dette vita a uno studio legale di alto livello, specializzato nelle cause feudali, civili ed ecclesiastiche. Dal 1658 fu avvocato a Roma dei re di Spagna Filippo IV e Carlo II.
Nel 1676, dopo trent’anni di intensa attività e dopo aver già dato alle stampe le opere maggiori, abbandonò la professione e prese i voti di sacerdote. Con l’ascesa al soglio papale, pochi mesi dopo, di Benedetto Odescalchi (Innocenzo XI), ne divenne subito, come Uditore e Segretario dei memoriali, uno dei più stretti collaboratori, e fu incaricato di predisporre uno stringente programma di riforme riguardanti l’amministrazione della giustizia. La dura opposizione di un gruppo di cardinali evitò però la realizzazione degli interventi più incisivi, come l’abolizione del nepotismo.
Negli incarichi pubblici si creò fama di persona laboriosissima e rigorosa, moralmente integerrima, di sobrie abitudini. Fu attivamente presente nella vita culturale romana anche frequentando accademie, come quella creata dalla regina Cristina di Svezia, tenendo discorsi e pubblicando interessanti scritti su temi a cavallo tra diritto, costume e politica. Dal 1681 fu cardinale, membro di undici congregazioni e di altre importanti magistrature della curia romana, fino alla morte, avvenuta il 5 febbraio 1683.
Il Theatrum veritatis et justitiae
La sua opera più importante è il monumentale Theatrum veritatis et justitiae (1669-1673), in quindici libri (più altri quattro di supplemento) che raccoglie oltre 2500 pareri pro veritate, pro parte ed extra-giudiziali nei più diversi campi del diritto civile, canonico e feudale. Stampata diciotto volte in Italia, Francia e Germania, è il capolavoro di De Luca e la base di molti scritti successivi di carattere divulgativo.
Essa, anche se risponde a suo modo alla vocazione enciclopedica seicentesca, non può considerarsi una vera e propria enciclopedia, giacché il materiale contenuto, pur calato in una sommaria partizione sistematica, non è trasfuso in una trattazione astratta, come avverrà invece nelle opere successive Il dottor volgare e la Summa sive compendium theatri, ma si presenta nella forma di semplice raccolta di pareri, sporadicamente integrati da trattazioni teoriche.
Nel Theatrum si rispecchia nitidamente la complessità dell’esperienza giuridica del tardo diritto comune, caratterizzata da un’accentuata pluralità di fonti normative e da peculiari principi e strumenti che presiedevano al funzionamento del sistema. Vi si può cogliere tutto il persistente e fondamentale ruolo dei diritti particolari (statutari e consuetudinari), dell’interpretatio dottrinale, della communis opinio, delle decisioni e della giurisprudenza delle magistrature centrali. A quest’ultima fonte, oltre che a una pur frammentaria legislazione sovrana, sembra soprattutto riferibile la lenta emersione di un diritto patrio nei due ordinamenti statali a cui prevalentemente fa riferimento De Luca: lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli.
La missione divulgativa e le opere in lingua italiana
Il celebre Dottor volgare (1673) può considerarsi una versione in italiano ridotta e di ‘alta divulgazione’ del Theatrum, ma con un taglio libero dalle esigenze forensi, e dunque più consono a lasciar affiorare il pensiero dell’autore sulle varie tematiche. Esso offre una rappresentazione precisa, penetrante e spesso critica della vita del diritto nel tardo Seicento, e soprattutto del mondo della giustizia e dei tribunali, ma la sua fama si lega soprattutto all’essere la prima trattazione colta e realmente enciclopedica dello scibile giuridico in volgare. Sebbene andassero da tempo maturando inclinazioni e preannunci in quella direzione (pensiamo alle opere di Eliseo Masini, Lorenzo Priori, Marco Antonio Savelli), si deve ritenere che fu con il Dottor volgare che l’italiano fece il suo ingresso pieno e maturo nelle trattazioni giuridiche di alto livello e si aprì la via a un graduale intensificarsi, specie dal secolo successivo, dell’uso del volgare nei vari ambiti dell’attività giuridica. Quella di De Luca fu dunque una scelta epocale, consapevole e coraggiosa, che suscitò aspre critiche tra i giuristi del tempo, ma che offrì un enorme contributo alla formazione del lessico giuridico italiano: come hanno indicato specifiche ricerche, gran parte dei vocaboli giuridici della quinta edizione del Vocabolario dell’Accademia della Crusca (1863-1923) sono esemplificati con lemmi del Dottor volgare e una parte consistente ha in quell’opera la prima attestazione.
In coerenza con la scelta maturata, dopo il Dottor volgare De Luca scrisse, tra il 1674 e il 1680, quasi esclusivamente opere in lingua italiana, indirizzandosi a un pubblico eterogeneo ma qualificato: principi e governanti (con il Principe cristiano pratico, 1680), nobili (a cui si rivolge Il cavaliere e la dama, 1675), ecclesiastici (edotti degli aspetti pratico-giuridici che li riguardano con Il vescovo pratico, 1675, Il religioso pratico, 1679, Il cardinale della S.R. Chiesa pratico, 1680), avvocati e giudici (di cui si vogliono emendare i canoni espressivi nello scritto Dello stile legale, 1674). Agli studenti infine offrì l’Istituta civile, opera rimasta incompleta e pubblicata postuma nel 1733 a cura di Sebastiano Simbeni. Tali opere, come il Dottor volgare, spesso si rifanno nei contenuti al Theatrum, al quale costantemente rinviano per approfondimenti.
Negli scritti che più direttamente toccano la sfera politica e l’attività di governo, come nel Principe cristiano, emerge costante un monito: anche in quest’ambito il diritto deve mantenere la centralità che gli ha riconosciuto la tradizione medievale. L’arte del governare non può basarsi su mere considerazioni utilitaristiche, come pretendeva certa cattiva ragion di Stato, né su dogmi teologici o su una mutevole precettistica etica, come ritenevano molti moralisti cattolici antimachiavellici, armati di pie intenzioni, ma ignari persino delle basi giuridiche elementari. A tutti De Luca ricorda che il diritto è la struttura portante della società civile, la quale non può rinunciare mai alla giustizia (commutativa e distributiva) e dunque all’opera indispensabile dei giuristi. Questa idea di fondo separa De Luca sia da Niccolò Machiavelli che da Giovanni Botero. Echi del pensiero di questi due autori (e ancor più di Francesco Guicciardini), come il pragmatico realismo e il disincantato pessimismo sociale, certamente si possono cogliere sparsamente nelle riflessioni di De Luca: ma ricordiamo che si tratta di aspetti ormai largamente penetrati in molti scrittori politici del Seicento. Inoltre in De Luca non viene mai meno quel senso del bene comune, quel rigoroso senso civico di servizio imparziale alla res publica, che trova piuttosto riscontri nel pensiero di Lucio Anneo Seneca, Epitteto e Marco Aurelio, cioè di quello stoicismo antico che Giusto Lipsio (assai noto e apprezzato in certi ambienti aristocratici romani seicenteschi) aveva divulgato e riproposto secondo una chiave di lettura cristiana.