In un mondo diviso tra due schieramenti contrapposti, il blocco comunista e quello filostatunitense, il governo De Gasperi si schiera e firma l’adesione dell’Italia all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).
Ci fu un tempo, non molto lontano, in cui l’Italia fu chiamata a prendere il suo posto nel mondo, che era diviso e instabile non più della stessa Penisola. Sì, insomma, l’Italia fu chiamata a decidere in quale parte dello scacchiere internazionale posizionarsi, ma la scelta non è che fosse poi così piacevole. Da un lato vi erano i rossi, che propugnavano eguaglianza sociale, maggiori diritti per i più deboli, e la benevola protezione dello Stato su casa e famiglia. Essi erano in verità molto simpatici a una nutrita porzione di elettorato, e difatti alle elezioni dell’Assemblea Costituente, nel 1946, contava il 40% degli elettori (18,9% per il Partito Comunista, PCI, e 20,7% per il Partito Socialista, PSI). Avevano però un difetto: mangiavano i bambini, e poiché gli italiani sono da sempre più amanti della pastasciutta che della carne, la scelta verso i comunisti non sarebbe stata delle migliori.
Dall’altro lato dello scacchiere c’erano gli americani: un popolo coraggioso, che aveva attraversato l’oceano per liberare l’Italia dalla piaga del fascismo. Erano poi generosi, giacché non era ancora stata formalizzata la scelta dell’Italia che già nel 1947 gli Stati Uniti avevano varato l’European Recovery Program, noto come Piano Marshall, ossia un gigantesco programma di aiuti ai Paesi europei per la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale. Anche loro, però, avevano un difetto: proprio non volevano smilitarizzare la Penisola, dopo averla liberata dai fascisti.
I vertici politici erano poi agitatissimi: Togliatti e Nenni si sgolavano pur di portare i giornali dalla propria parte, mentre De Gasperi preferiva costose telefonate internazionali. Ma la priorità era una sola: rendere l’Italia un Paese stabile, sia dal punto di vista politico – quindi diventare un modello di democrazia ben funzionante, che da quello economico – ossia svilupparsi come moderna potenza industriale in Europa. Non riuscì mai a diventare pienamente nessuna delle due cose, ma ci provò. Vista però la priorità, i vertici politici capirono che sarebbe stata l’America, e l’Europa con lei, a offrire un terreno fertile di sviluppo all’Italia (poi sfruttato solo in minima parte), poiché la Russia sovietica faceva paura, in fondo.
Proprio il 1948 fu l’anno in cui l’Unione Sovietica di Stalin aveva mostrato i denti all’Europa: in febbraio aveva mosso il colpo di Stato comunista a Praga, in giugno aveva proseguito con il blocco di Berlino, rendendo necessario un ponte aereo per rifornire la città. L’Italia guardava poi con preoccupazione alla insoluta questione di Trieste, che aveva portato alla creazione di un Territorio libero con due zone distinte, una delle quali assegnata alla Jugoslavia del generale Tito, che già dava segni di squilibrio. In questo clima, nel marzo 1948 Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio e Lussemburgo avevano dato vita all’Unione europea occidentale (UEO), finalizzata alla creazione di un piano di sicurezza militare su scala regionale – di natura difensiva – e cooperazione politica. L’Italia era accerchiata: poteva mai scegliere la Russia?
Fu così che l’11 marzo 1949, il Consiglio dei ministri si pronunciava «in senso unanime per l’accessione in via di massima al Patto atlantico». Si trattava di un patto militare di natura difensiva, in cui i Paesi membri s’impegnavano alla mutua assistenza in caso di attacco, nonché alla condivisione di strutture militari, sviluppi tecnologici e un disegno di sicurezza tutt’altro che pacifico. Erano le prime intense scintille della Guerra Fredda.
Perché gli americani volevano l’Italia? Per la sua posizione geostrategica, naturalmente.
Protetta dalle Alpi, l’Italia settentrionale avrebbe raggiunto con i suoi missili i Paesi satelliti dell’Est Europa in caso di attacco, mentre le preziose isole sul Mediterraneo sarebbero state i porti navali americani verso Nord Africa e Turchia.
Durante il voto alla Camera, il blocco cattolico fu compatto, nonostante tre illustri voti contrari (Dossetti, Gui, Del Bo), cinque gli astenuti e quattordici assenti tra cui Gronchi, allora presidente della Camera. Il 27 marzo anche il Senato autorizzò l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico. Il 4 aprile sarebbe seguita la firma a Washington, e poi il 4 maggio del 1949, a Roma, il governo De Gasperi firmò l’accordo sull’ingresso dell’Italia nella NATO.
I quotidiani nazionali ufficialmente “neutri” parlarono di “impegno” verso i vicini europei, di “opportunità” offerte dall’alleato d’oltreoceano e dei benefici, primo tra tutti la “libertà dalla paura“, che questo trattato aveva portato. L’Unità titolava invece la contrarietà dei leader di sinistra, e preannunciava la sciagura di una nuova guerra, di portata magistrale.
Nelle scorse settimane, l’invasione della Russia in Ucraina ha riportato in auge il dibattito sulla presenza e il ruolo delle basi e strutture della NATO in Italia. Le strutture sono in tutto 120, sparse in quasi tutte le regioni, a cui si aggiungono una ventina di basi segrete americane, non riconosciute ufficialmente per motivi di sicurezza.
C’è chi nel corso della storia ha poi visto l’ingerenza dell’intelligence americana non solo nella politica nostrana bensì anche in tristi eventi che hanno scosso il Paese, primi tra tutti gli Anni di Piombo, in cui gli atti di terrorismo neo-fascista sarebbero stati coperti dagli americani per evitare una decisa tendenza a sinistra per il Paese – la fetta di elettorato del PCI passò comunque dal 22,6% del 1953 al 29,9% nel 1983, con un picco del 34,4% nel 1976.
Non sta a noi giudicare la veridicità o meno di tali cospirazioni – mancando poi degli strumenti utili – piuttosto preferiamo riconoscere il valore politico e sociale di quel 4 maggio 1949. L’Italia era una potenza medio-piccola, non molto diversa da oggi, perciò entrò sotto l’ala protettrice di un valido alleato, ritagliandosi la sua voce ai tavoli internazionali. Ma era anche un Paese fortemente scosso da diseguaglianze sociali ed economiche. I finanziamenti americani e lo scambio di conoscenze scientifiche e tecnologiche anche con gli alleati europei – reciproco, sia chiaro – certo stimolarono il tessuto industriale della Penisola, da Nord a Sud, ma non dobbiamo sottovalutare neppure l’impatto sociale dell’iniziativa. L’Italia venne infusa dei valori di libertà, emancipazione, il sogno americano dell’uomo che si fa da sé (il self-made man), l’idea che la mobilità sociale fosse possibile lavorando duramente, valori che gli italiani avevano dimenticato o messo da parte durante i duri anni della dittatura, e che gli americani risvegliarono.
Nessun evento storico è mai solo bianco o solo nero nelle sue conseguenze, bensì una nutrita scala di grigi fatta di innovazione e criticità, vantaggi e compromessi.
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