Il 22 luglio 1937 il Senato degli Stati Uniti d’America bocciò il progetto – fortemente voluto dal Presidente democratico Franklin Delano Roosevelt – di “allargamento” della Corte Suprema, attraverso la nomina di nuovi giudici. Si trattò della “morte” ufficiale di un tentativo in verità già sconfitto da tempo, ma che rimane a tutt’oggi tra i più controversi, per il suo significato e per i suoi reali effetti.
FDR, poco dopo aver conquistato il suo secondo mandato (con una maggioranza straordinaria: vinse 46 Stati su 48 totali e il 60,8% del cosiddetto voto popolare), decise di sfidare quelli che avvertiva come alcuni tra i suoi più coriacei avversari – i giudici della Corte Suprema, che, nei quattro anni precedenti, avevano, a più riprese, dichiarato incostituzionali alcune delle riforme legislative più importanti del New Deal. Nel febbraio del 1937, il Presidente presentò il suo Judicial Procedures Reform Bill, che – se approvato – gli avrebbe permesso di nominare fino a sei nuovi giudici (uno per ogni membro della Corte in carica che avesse compiuto 70 anni e 6 mesi). Roosevelt era certo di poter vincere questa battaglia, ma l’opposizione al progetto di legge montò invece immediata e trasversale: a schierarsi apertamente contro, oltre ai Repubblicani, furono lo stesso Vicepresidente degli Stati Uniti, John Nance Garner, e il presidente (sempre democratico) della Commissione giustizia della Camera, Hatton William Sumners; l’unico nome di spicco a sostegno del bill fu quello del capogruppo democratico al Senato, Joseph Robinson (cui era stata promessa la nomina a giudice della Corte Suprema). Ma il vero leader della coalizione “informale” che così venne a crearsi fu il Chief Justice Charles Evans Hughes (1862-1948), venerato statista repubblicano (era stato Governatore dello Stato di New York, candidato alla Presidenza e Segretario di Stato), il quale impiegò tutta la sua abilità per assicurarsi la sconfitta del progetto di FDR: quest’ultimo fu costretto ad ammettere che «the Chief Justice [was] the best politician in the country». Il progetto divenne famoso come “the Court-packing plan”, e – ancora oggi – “to pack the Courts” è detto in riferimento al deplorevole desiderio del Potere Esecutivo di riempiere i Tribunali di giudici lealisti e politicamente affini.
È tuttavia opinione tradizionale (benché ripudiata da alcuni degli storici più recenti) che ad aver determinato il tramonto del Judicial Procedures Reform Bill fu soprattutto l’improvviso cambio di orientamento giurisprudenziale mostrato da Justice Robert Owens (1875-1955), considerato un “conservatore moderato”, che – in West Coast Hotel Co. v. Parrish (1937) – votò insieme ai giudici più “progressisti” (i cosiddetti Three Musketeers: Brandeis, Cardozo e Stone) e allo stesso Hughes, affermando la costituzionalità delle leggi statali che fissavano un salario minimo, e così mettendo definitivamente in minoranza i giudici più “conservatori” (i cosiddetti Four Horsemen: Butler, McReynolds, Sutherland, Van Devanter). Con West Coast Hotel, la Corte Suprema chiuse la cosiddetta Lochner Era, una fase giurisprudenziale di grande attivismo in tutela delle libertà economiche, e assunse un atteggiamento di maggiore deferenza nei confronti dell’interventismo sociale dei governi statali e federale. Il cambio di “schieramento” di Owens è ancora oggi noto come «the switch in time that saved nine»: un fortunato gioco di parole sul detto inglese «a stitch in time saves nine» (e che noi potremmo tradurre come «un punto (di rammendo) in tempo ne evita cento»), in cui il rapido riposizionamento (the switch in time) fece sì che il numero dei giudici della Corte Suprema restasse fisso a nove.
Benché umiliato dalla sconfitta, FDR riuscì – infine – ad assicurarsi una Corte Suprema più “amica”: nel giro di poco meno di quattro anni (1937-1941), le dimissioni o la morte di ben 7 dei 9 giudici consentirono al Presidente democratico di rimodellare la composizione della Corte (egli nominò, in totale, 8 giudici: solo George Washington è riuscito, fino ad oggi, a nominarne di più). Come è stato notato da William Rehnquist (1924-2005), che in gioventù fu law clerk di uno dei giudici nominati da FDR (Justice Jackson) ed è stato a sua volta Chief Justice (dal 1986 alla sua morte), Roosevelt
«lost the Court-packing battle, but he won the war for control of the Supreme Court […] not by any novel legislation, but by serving in office for more than twelve years […]. [Yet] it was the United States Senate – a political body if there ever was one – who stepped in and saved the independence of the judiciary».