Oltre che un giurista, anzi più che un giurista, Giuseppe Capograssi fu un filosofo.
Lo scopo della filosofia, diceva, è spiegare la vita, e cioè l’esperienza immediata, l’agire concreto, attivo e quotidiano di ognuno di noi.
Oggetto delle sue attente speculazioni di filosofo cristiano erano il contraddittorio e spesso incoerente mondo moderno; la tensione tra gli opposti, fede e scienza, umano e divino; la partecipazione dell’uomo all’assoluto, che si rispecchia e vive in lui.
Nel pensiero Capograssi risuona l’eco dei suoi predecessori: da Agostino a Pascal, da Hegel a Vico.
Impegnato anche a sostenere la costruzione di uno Stato democratico vicino al cittadino, dagli inizi del 1915 iniziò la professione legale insieme all’amico Salvatore Pugliese.
Parallelamente, Capograssi portava avanti la carriera accademica, prima a Sassari, poi a Macerata, Padova, Roma, Napoli, e ancora Roma.
Nel dicembre 1955 fu nominato giudice della Corte Costituzionale dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Per una strana ironia della sorta, però, Capograssi non fu mai giudice costituzionale perché morì il 23 aprile 1956, proprio il giorno della seduta inaugurale dei lavori della Corte.
Sua, e nostra, interlocutrice, rimarrà sempre Giulia, la moglie, che con fine intelligenza seppe accompagnarlo nella vita e negli studi, sapendo essere sua confidente e consigliera.
La filosofia e il pensiero di Capograssi restano infatti ancor oggi custoditi nei bellissimi “Pensieri a Giulia”, documentazione essenziale per ricostruire l’uomo “fortunato”, come lui stesso si definiva, che Capograssi, in fin dei conti, fu.