Nacque a Roggiano Gravina, nei pressi di Cosenza, il 20 gennaio 1664, da Gennaro e Anna Lombardi, ambedue di famiglia facoltosa. Dopo avere ricevuto la prima istruzione dal padre, fu mandato a continuare gli studi a Scalea, nella “scuola” del cugino Gregorio Caloprese, il cui indirizzo cartesiano fu di grande stimolo nella sua formazione culturale.
Nel 1680, su consiglio del maestro, Gravina si trasferì a Napoli, proprio quando la vita culturale cittadina, grazie all’impulso impresso dall’Accademia degli Investiganti, cominciava a offrire diffusi segnali di vitalità. Nella capitale si applicò alle problematiche atomistico-sperimentaliste e storico-filologiche libertine che animavano la vita culturale del momento. Frequentò la scuola di Serafino Biscardi, giurista di grande spessore, che lo avviò alla storiografia giuridica, e quella di Gregorio Messere, cattedratico di greco nell’Università. L’incontro con il Biscardi fu determinante per superare la naturale avversione verso gli studi giuridici, identificati con la prassi forense; dal Biscardi, oltre a una notevole conoscenza del diritto, Gravina assimilò anche l’interesse per l’esegesi dei testi giuridici. Momento fondamentale della sua formazione culturale in questi anni fu il proficuo incontro con l’umanesimo giuridico e la giurisprudenza culta: usò ampiamente Alciato e Cuiacio, esponenti del cultismo, e non mancano in lui motivi di ispirazione donelliana.
Quasi certamente in questi anni, Gravina conobbe a Napoli il cardinale Antonio Pignatelli, futuro Innocenzo XII, e suo nipote Francesco Pignatelli, allora arcivescovo di Taranto. Quest’ultimo, dovendo lasciare Roma, lo volle nella Curia pontificia come suo agente e così Gravina lasciò Napoli nel 1689 per trasferirsi a Roma. Gli strumenti culturali acquisiti a Napoli favorirono negli ambienti culturali romani una sua rapida ascesa.
I primi risultati degli anni di formazione napoletani furono la Hydra mystica, sive De corrupta morali doctrina dialogus stampata a Napoli, con la falsa indicazione di Colonia, nel 1691, quando l’autore era a Roma già da due anni, in sole cinquanta copie e con lo pseudonimo di Priscus Censorinus Photisticus (“illuminante”), e il Discorso sopra l’Endimione.
La Hydra mystica, che dal piano teologico-religioso si estende all’intera sfera delle scienze morali, è un’opera tipicamente napoletana, che risente dell’insegnamento calopresiano, delle posizioni del Biscardi e degli anticurialisti. Essa costituisce una cerniera tra la cultura meridionale, volta a un’azione di rinnovamento radicale, e l’ambiente intellettuale romano, di gran lunga meno incisivo. Gravina interviene nelle discussioni sul cosiddetto peccato filosofico (se, cioè, l’ignoranza della legge morale giustifichi il peccato, secondo quanto affermavano e negavano rispettivamente gesuiti e giansenisti), condannato il 24 ottobre 1690 da Alessandro VIII: sebbene il vero bersaglio siano i gesuiti, le loro dottrine, i loro metodi capziosi e il loro probabilismo, in nome di un ritorno a una religiosità autentica basata sulla fede e sulla Scrittura.
Tra altri incarichi svolti a Roma, dal 1699 Gravina tenne nell’Università la cattedra di diritto civile, per volere del cardinale Giovanni Francesco Albani, e dal 1703 quella di diritto canonico.
Dal 1696 al 1708, anno di pubblicazione, a Roma, della Ragion poetica e, a Lipsia in tre volumi, delle Origines iuris civilis, Gravina attraversò un periodo di raccoglimento e intenso studio concentrato sul diritto e, allo stesso tempo, di diretta partecipazione alle vicende politiche, diplomatiche, ecclesiastiche romane e di febbrile attività universitaria. In questi anni le sole uscite editoriali furono il De ortu et progressu iuris civilis liber, qui est Originum primus (stampato a Napoli nel 1701), che costituisce nella sostanza il primo volume delle Origines, e le Orationes (De instauratione studiorum, In auspicatione studiorum de sapientia universa, De iurisprudentia, De rectain iure disputandi ratione, De repetendis fontibus doctrinarum, De canone interiore, Pro Romanis legibus ad magnum Moschorum imperatorem, De foedere pietatis et doctrinae, Pro legibus Arcadum), edite a Napoli nel 1712 con dedica a Francesco Pignatelli.
L’anno cruciale per l’attività di autore di Gravina fu però il 1708, con la pubblicazione, a Roma, della Ragion poetica e, a Lipsia, degli Originum iuris civilis libri tres.
Le Origines, esito di tutta l’attività di giurista del Gravina, gli dettero notorietà europea. L’analisi che vi viene svolta nelle documenta la visione graviniana dello Stato, della sua origine e organizzazione, e le sue riflessioni sull’articolarsi delle forme di governo e sui rapporti fra il sovrano e la collettività. Il pensiero politico del Gravina muove sostanzialmente dal platonismo, dal cartesianesimo e dallo stoicismo secentesco. Fondamentale è il principio che le istituzioni sociali siano destinate a corrompersi periodicamente, in quanto gli interessi particolari, prevalendo, producono un corso circolare nell’evoluzione della società. Centrale è anche il problema della tirannide, con la questione della liceità di resistere ai comandi del tiranno. Il pensiero graviniano è percorso dall’idea della totale antigiuridicità del fenomeno tirannico, anche se non si arriva a soluzioni radicali. Difensore intransigente della libertà, cui attribuisce un valore quasi sacrale, Gravina considera lecito che i sudditi si ribellino al tiranno e ristabiliscano l’ordine distrutto, ma ritiene che i governanti abbiano ildiritto di servirsi della loro autorità e, se necessario, intervenire armata manu per evitare il rischio che la libertà si trasformi in licenza. Sola eccezione al diritto dei sudditi di ribellarsi gli pare il caso in cui si presenti il pericolo di ricadere nell’anarchia (la situazione dei Romani sotto l’Impero). All’origine della società civile Gravina pone il contratto sociale, fornendone però una interpretazione più espressamente giuridica. La società, che si origina dall’unione delle famiglie, subentra all’originaria ferinità. Una città è una società pubblica costituita per l’utilità comune, la tutela dei singoli e dei loro beni; è tenuta unita dalle leggi, al cui mantenimento devono contribuire tutti gli individui. Il consenso è il vincolo fondamentale dei sudditi con lo Stato, e la sua mancanza provoca un abuso di potere da parte di coloro che lo detengono e di conseguenza la tirannide. Spinti dalla ragione, che trionfa sugli istinti naturali attraverso il patto, gli uomini si sono spontaneamente sottomessi alle leggi per la loro sicurezza. Questa, che ha ruolo determinante nella speculazione graviniana, indica l’utilità di vivere nel diritto; il governo sarà affidato al sapiente, che dovrà contribuire a realizzare il fine cui tende la società, la salute pubblica.
Un’approfondita analisi delle forme di governo è centrale nell’elaborazione di Gravina, che distingue tre generi di civitas: semplice, mista, perturbata. La civitas mixta assume tre forme, a seconda che la ragione risieda in una sola persona, in un piccolo numero dicittadini, o nell’intero corpo sociale. Ne risultano il regnum, lo status optimatum e la res publica, destinati tuttavia fatalmente a trasformarsi nelle rispettive forme degenerate: tirannide, oligarchia e democrazia. Pur apprezzando la forma repubblicana, Gravina sostanzialmente sostiene quella monarchica, che ritiene più adatta alla realtà politica contemporanea. In sintesi, la sua prospettiva consiste nel garantire il funzionamento dello Stato di diritto, distinguendo il ruolo della magistratura da quello del governo, e attribuendo allo stesso tempo una funzione di primo piano al ceto medio.
Nel 1715, dopo la morte del Caloprese, che lo aveva nominato erede, Gravina si recò in Calabria per occuparsi dell’eredità e cercare riposo, dato che cominciavano a manifestarsi i primi evidenti segnali di una grave malattia; tuttavia tenne anche un insegnamento privato. Tornato a Roma, in compagnia del Metastasio, dopo più di un anno, riprese gli studi giuridici.
La morte colse Gravina a Roma il 6 gennaio 1718, assistito dal Metastasio, che egli aveva designato suo erede, mentre stava per recarsi a Torino per ricoprire la cattedra di diritto canonico offertagli da Vittorio Amedeo II di Savoia.