L’Abbazia Párraces, oggi provincia di Segovia, sembra, da una rapida ricerca on-line, offrire un’ottima location per feste di matrimoni ed altri eventi. Non essendo purtroppo mai stato invitato posso solo immaginare la bellezza dei due ampi chiostri porticati annessi al corpo abbaziale, come posso anche pensare che forse, ai nubendi in visita, prima della valutazione del menù, venga raccontata la storia del cenobio e, forse, anche dello strano processo che lì ebbe luogo nel maggio del 1650, processo nel quale al banco degli imputati fu posto niente di meno che uno sciame di cavallette.
Negli anni centrali del XVII secolo i possedimenti circostanti l’abbazia erano annualmente colpiti da una grande invasione di questi animali, che rovinavano i raccolti e portava parte della popolazione a pensare di emigrare. Al quarto anno in cui si ripeteva questa piaga i popolani, ormai constatata l’inutilità dei rimedi tradizionali (essenzialmente catturare le locuste per bruciarle in grandi falò o seppellirle) ed esaurita tutta la serie di «incantesimi, esorcismi, benedizione dei campi e messe con acqua benedetta, con acqua di San Gregorio, processioni, novene, suppliche, preghiere, esortazioni al popolo affinché ciascuno supplichi e si affidi a Dio e cambi le sue abitudini, soprattutto per i peccati pubblici», chiesero ai religiosi dell’abbazia un intervento risoluto in loro favore. La decisione fu presa rapidamente dall’accusatore pubblico del locale tribunale ecclesiastico: si era ormai reso necessario processare i diabolici animali affinché, constatate le loro colpe «secondo tutte le regole di Diritto», potessero essere giustamente puniti.
Il fascicolo di tale processo[1] racconta con dovizia di dettagli delle singole fasi processuali: dalla nomina (sembra d’ufficio) del difensore dell’imputato, alla costituzione delle parti civili, alle ragioni svolte nel dibattimento, fino alle deposizioni dei testimoni. Le problematiche di diritto si concentrano nelle questioni preliminari, vertendo essenzialmente sull’imputabilità delle langostas. Contro tale possibilità si schierava infatti l’autorità dei teologi, non ultimo tra i quali Tommaso d’Aquino, per il quale:
«La benedizione o maledizione è propria di quelle cose che possono fare il bene e il male, cioè le creature razionali. […] Maledire le cose irrazionali in quanto sono creature di Dio è peccato di blasfemia e d’altra parte maledirle considerandole in sé è ozioso e vano ed in conseguenza illecito»[2].
Nonostante questa ed altre “autorità concordi” il giudice risolse la questione adottando una sottile distinzione: certo, «le locuste non si possono scomunicare per sé sole, indirizzando la scomunica a loro primariamente o directe […], loro non si muovono per se stesse, ne sono capaci di subire una scomunica, perché per incorrere in questa è necessario che siano capaci di colpa, e loro non possono averla» tuttavia «si possono scomunicare indirecte, secundario et quasi ex consequenti, che è lo stesso che dire che possono essere toccate da qualche effetto della scomunica in quanto si pongono in relazione all’uomo, che è il soggetto proprio della scomunica, e questo porsi in relazione può essere bene o male».
Ipotizzata quindi la possibilità di imputare le cavallette indirecte il nodo non è però ancora sciolto: se infatti, riprendendo gli esempi del testo, è chiara la relazione che intercorre tra la benedizione di un edificio o di un letto e l’uomo, meno evidente è la relazione tra le locuste tout court e gli abitanti di quei villaggi, in quanto è difficile stabilire cosa stia dietro a quest’invasione. Gli animali infatti sono per il giudice naturalmente mossi da altri – si potrebbe dire si sia in presenza di un caso di autoria mediata – ma è difficile capire se il burattinaio sia Dio, che così agisce per punire l’uomo per qualche peccato, o sia il demonio, il quale invece vorrebbe solo danneggiare il creato. Nel dubbio il decidente si appoggia ad un altro passo tomista. È infatti duplice per il Doctor Angelicus il modo di fare gli scongiuri: per invocazione e per costrizione. Sebbene entrambi non possono essere utilizzati contro gli animali irrazionali tale distinzione permette di declinare gli effetti della scomunica “mediata” delle cavallette nelle due differenti ipotesi di autoria. Infatti «duplicemente si possono scongiurare le creature irrazionali. In un primo modo, per via di esortazione diretta a Dio […], in altro modo, per via di costrizione, che si riferisce al diavolo»[3]. Pertanto, nel dubbio tra le due cause, il giudice può limitarsi a rilevare che «la maledizione che si fa contro agli animali affinché non siano dannosi all’uomo si fa in modo esortativo verso Dio affinché operi e allontani da noi quel danno o castigo, e si fa in modo di costrizione o maledizione contro il demonio, che può muovere quegli animali a nostro danno, ordinandogli che le allontani e le fermi».
L’ultimo dubbio è legato all’assenza di una previsione esplicita della possibilità di scomunicare gli animali, visto che trattandosi di «cose odiose e penali ci si deve fermare alla parole del Diritto senza applicarle ai casi simili» e la scomunica potrebbe essere considerata un’applicazione analogica in malam partem verso i poveri animali. Tranchant – meglio: contraddittoria – è la risposta del chierico: certo, “favores sunt ampliandi, penae vero retringendae (bisogna ampliare i benefici, mentre bisogna trattenere la pena)”, però “ubi ius non distinguit, nec nos distinguere debemus (dove il diritto non distingue, neppure noi dobbiamo distinguere)” e non essendo previste nel caso di specie divieti particolari non ha senso porre distinzioni ulteriori. Infine, il giudicante non può che rilevare che un tale procedimento era già stato seguito, sembra con ottimi risultati, dai vescovi di Ávila e di Valladolid contro le locuste, mentre a Osma così erano stati risolti problemi delle invasioni di ratti e persino a Cordoba una provvidenziale scomunica aveva fatto allontanare dalla città le rondini che a quanto pare sporcavano in modo irreligioso la città. Perché non provare anche a Párraces insomma?
Superate le questioni preliminari a non molto si ridusse la (poco convinta) difesa: riaffermata l’inimputabilità degli esseri privi di ragione si mise in relazione, con il supporto dalle testimonianze di alcuni monaci locali, la piaga con l’insindacabile volontà divina. In subordine, “pena equa e benefici di legge”. Il contrario naturalmente sostenne l’accusa e le agguerrite e variopinte parti civili (anime del purgatorio, ordini mendicanti, clero secolare).
Nel giro di pochi giorni si giunse quindi alla sentenza definitiva, preceduta da una interlocutoria ed una di revisione, e la pena comminata fu l’esilio da quelle terre, tanto per le voraci locuste quanto per i loro successori, sotto minaccia di scomunica (ma, si specificava, senza arresto). Per tre giorni la sentenza fu letta in chiesa nei campi, senza che le locuste ottemperassero, ed altri tre giorni aspettò il paziente giudice prima di attuare la minaccia e conseguentemente pronunciare la scomunica maggiore nei confronti sciame, cosa che avvenne il 21 maggio 1650. Se gli effetti immediati di questa risoluzione divergono secondo le fonti è invece certo che lo sciame, di corta memoria, tornò ad assaggiare l’erba di quei campi l’anno seguente.
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Tale vicenda, studiata in particolare da Tomas y Valiente, oggi usata nel dibattito scientifico come metafora, ad esempio, dell’inefficacia dell’utilità del contenzioso amministrativo senza utili processi d’ottemperanza, potrebbe essere facilmente ascritta, secondo un approccio positivistico, alla
«disposizione puerile di punire le creature irrazionali che è comune all’infanzia degli individui e dei popoli»[4]
Se anche si dovesse accettare una tale prospettiva evoluzionista non si può non restare colpiti dal periodo in cui questi fatti hanno avuto luogo: non si tratta infatti né dell’alto né del basso medioevo ma dell’epoca moderna e della più ricca ancora epoca barocca spagnola, nel lungo tramonto del siglo de oro nel quale risuonano i versi di Góngora e De Quevedo e le battute di Lope de la Vega e Calderón de la Barca ma soprattutto si allunga l’ombra allampanata del Chisciotte. Non proprio una società di barbari insomma ed anzi una cultura nella quale i chierici rappresentavano spesso gli elementi più colti della comunità.
Ampliando lo sguardo all’intero fenomeno dei processi ad animali si deve rilevare sia che spesso entrambe le parti mostravano un grande impegno nelle motivazioni legali a sostegno dell’accusa e della difesa sia come tali procedimenti fossero economicamente impegnativi per la comunità, se non più di quelli “umani”, quantomeno d’uguale costo (uguale era ad esempio il prezzo giornaliero per la prigione preventiva) e non possono essere derubricati quindi di un mero “divertissement” ma al contrario possono essere considerati come epifenomeni delle dinamiche profonde di quella società. Due elementi possono essere brevemente accennati: l’importanza del modello processuale e la difficoltà del clero, ormai sempre più lontano dalle preoccupazioni popolari, a trovare un suo nuovo ruolo. Se oggi la ragione epistemica scientifica ha preso il sopravvento ed il processo è diventato agli occhi dell’opinione pubblica un gioco dall’esito sempre dubbio, di sicuro così non è stato né nel medioevo né nell’età moderna: i processi erano allora un esercizio di ragione pubblica.
Da Abelardo “giudice” nel dialogo tra un filosofo un giudeo e un cristiano al successo del Processus Satane, attribuito per molto tempo a Bartolo, il processo è un momento importante, ed il semplice ricorso alle sue forme, come nel caso presentato rileva il giudice, permette di offendere il demonio e/o farsi ascoltare da Dio (meglio che con le preghiere sembrerebbe). Per il secondo aspetto invece, l’esplosione dei processi contro gli animali nel XVII secolo è stato ricondotto ai tentativi del clero locale di rinsaldare i vincoli con la popolazione, davanti ad una diminuzione del pagamento delle decime. A corroborare tale ipotesi nel caso descritto si potrebbe considerare come i soggetti individuati come parti offese dal comportamento delle locuste fossero, oltre alla generalità del popolo, proprio i soggetti che più potevano soffrire una riduzione delle donazioni: le anime del purgatorio, «perché diminuendo i frutti della terra, non si fanno come si deve i suffragi a loro vantaggio», le religioni mendicanti, «perché non possono i fedeli fare le elemosine come abitudine» e le chiese e i loro ministri, «perché mancano le offerte ed i pagamenti ordinari».
Oltre alle ipotesi ed alle giustificazioni ed oltre all’ironia che possono suscitare questi episodi – sebbene delle locuste uno può ridere finché non ti mangiano il raccolto – resta al fondo la stranezza del libero arbitrio: gli animali, separati in tutto dagli umani, a questi sembra possano essere accostati solo nella commissione di reati.
[1] Gli atti sono stati pubblicati in J. ZARCO CUEVAS (cur.), Pleito que se puso en la Abadía de Párraces para el exterminio de la langosta. Año de 1650, «Boletín de la Real Academia de la Historia», C (1932), pp. 313-348
[2] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIª-IIae q. 76 a. 2 co.
[3] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, IIª-IIae q. 90 a. 3 co.
[4] E. P. EVANS, The Criminal Prosecution and Capital Punishment of Animals, Londra, William Heinemann, 1906, p. 186
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