Un ruolo di spicco nel promuovere nuove idee sul diritto fu svolto da Jeremy Bentham (Londra, 15 febbraio 1748 – Londra, 6 giugno 1832), l’esponente più significativo dell’illuminismo giuridico inglese. Studente a Oxford, barrister a ventuno anni, egli ben presto abbandonò la professione legale per dedicarsi allo studio di temi diversissimi – dalla costituzione inglese al sistema penale, dai diritti di libertà all’educazione, dai progetti di codice alle riforme economiche e a molti altri – affrontati con acuto spirito critico e senza alcuna concessione alle convenzioni tradizionali. Esordì con una critica radicale all’opera di Blackstone, di recente apparsa e già celebre, sulla base del principio fondamentale per il quale “la misura del diritto e del torto deve essere la felicità massima per il massimo numero di persone“. Resterà questo il criterio di fondo della filosofia dell’utilitarismo, della quale Bentham è il fondatore.
L’intera impalcatura del Common Law è per Bentham discutibile: egli condanna il “diritto fatto dai giudici”, l’assenza di codici sistematici, il meccanismo delle finzioni legali, il sistema penale, la stessa giuria; e difende (senza alcuna fortuna, per quanto concerne l’Inghilterra) l’idea della codificazione, disegnando sintenticamente l’intero sistema legale che dovrebbe sostituire le regole esistenti, non solo in Inghilterra ma ovunque.
Una serie di suoi scritti, che nella versione originale rimasero inediti sino al Novecento, venne tradotta in francese dallo svizzero ginevrino Etienne Dumont ed esercitò sul Continente un profondo influsso. Anche in Inghilterra molte tra le maggiori riforme della giurisdizione e della legislazione civile e penale, avvenute nel corso dell’Ottocento, furono direttamente o indirettamente ispirate al pensiero di Bentham. E la sua impostazione è alla base di alcune correnti del pensiero giuridico del Novecento, in particolare l’analisi economica del diritto.