In Piemonte, alla fine dell’800, si doveva certamente respirare un’aria austera, seriosa, severa.
Baffi arricciati, schiene spezzate, marchesi, risaie, la lingua francese, il Re, Cavour, la nebbia, gente semplice e grandi signori.
Valori d’altri tempi.
Uno tutto si aspetta, tranne la storia che ho ripescato in questa sentenza della Corte d’Appello di Torino del 1898.
Tommaso Pezzica ha sposato dopo sette anni di casto amore la sua fidanzata, finalmente moglie, Anatilde Guidoni.
Le ha portato per tanto tempo un amore puro e fedele, e dopo il matrimonio “s’aspettava di cogliere in lei il fiore della castità e di conseguire finalmente quella felicità coniugale che da molto tempo agognava“.
Solo che, giunti al dunque, si accorge che qualcosa non va per il verso giusto: Anatilde non è illibata.
Lo aveva ingannato per tutti quegli anni, esponendolo al pubblico ludibrio e all’insulto che si sente gridar dietro l’infelice che è costretto ad abbassare il capo quando passa dalle porte.
Tommaso si indigna, vuole andare a fondo, capire cosa è successo, quando, quante volte e soprattutto con chi. E quando scopre la verità, e tutto il paese lo viene a sapere, tenta persino il suicidio. Chiede la separazione da Anatilde, per l’ingiuria che gli aveva arrecato e che gli continua ad arrecare “mediante la macchia d’impurità e di corruzione da cui è infetta“.
La Corte d’Appello ci va giù duro: sordida, laida, turpe, sozza e ignominiosa tresca.
Se la faceva con lo zio.
Che poi uno a voler essere cattivo e malfidente queste cose potrebbe al massimo aspettarsele da una Jessicah, una Selvaggiah, una Moanah.. ma da una che si chiama Anatilde? Vai a fidarti..
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La Corte: Considerato che Pezzica Tommaso ebbe a fondare la sua domanda di separazione dalla moglie Guidoni Anatilde principalmente sulla ingiuria grave da questa recatagli coll’essersi presentata al talamo coniugale non solo già deflorata, ma moralmente già contaminata e corrotta per una laida tresca lungamente tenuta collo zio Guidoni don Giorgio, mentre egli dopo averle portato un amore puro e fedele per circa un settennio, s’aspettava di cogliere in lei il fiore della castità e di conseguire finalmente quella felicità coniugale che da molto tempo agognava.
Ritiene la Corte che la impurità della Guidoni e la tresca da lei per molto tempo mantenuta col lo zio, ingiuriose per il Pezzica, risultino a sufficienza stabilite dai documenti prodotti.
La Corte ritiene inoltre che l’essersi la Guidoni presentata al talamo coniugale non solo in istato di deflorazione, ma moralmente corrotta dalla bruttura di una turpe tresca abilmente celata allo sposo, che si riprometteva trovarla invece pienamente casta, costituisca senza dubbio una ingiuria grave, e che come tale sia stata risentita da Pezzica, basti a dimostrarlo il fatto che egli per causa di essa si trovò spinto ad addivenire ad un serio tentativo di sacrifizio della propria vita
Nè al fine di rendere inammissibile codesta in giuria come una delle cause dalla legge determina te per dar diritto alla separazione puossi con fondamento osservare che secondo lo spirito dell’art. 150 cod. civ. le gravi ingiurie devono essere avvenute nello stato di matrimonio, imperocché se l’ingiuria lamentata da Pezzica trae la sua origine da fatti al matrimonio anteriori, essa però appare nel caso speciale in esame contemporanea al ma trimonio stesso, venendo ad esplicarsi e ad avere il suo effetto sull’animo dell’ingiuriato all’atto del matrimonio, allorché colla colpevole ed odiosa dis simulazione sulla sua depravazione morale la sposa, che pur doveva fin da quel solenne momento piena confidenza allo sposo, questo rendeva vittima d’un inganno crudele, gettandolo in una dolorosa posizione disonorata, da cui derivava appunto a lui il danno dell’ingiuria.
Ben si può quindi ritenere nelle speciali circo stanze di fatto sottoposte all’apprezzamento della Corte, che l’ingiuria predisposta prima ha pur la sua base in un fatto che succede all’atto del matrimonio in cui essa si consuma e si completa, nel fatto, cioè, per cui è indegnamente ingannata in quel punto dalla sposa la buona fede dello sposo sulla piena purità di lei, e viene così dalla sposa recata nel punto medesimo una grave offesa al sentimento morale e alla dignità del suo consorte.
E per di più puossi ritenere ancora che l’ingiuria stessa continua colle sue dannose conseguenze anche posteriormente al matrimonio. Si tratta, invero, di una ingiuria che dopo il vincolo coniugale la moglie seguita a recare al marito mediante la macchia d’impurità e di corruzione da cui è infetta, la quale l’accompagna anche dopo le nozze e dura in lei non soltanto, ma prosegue a conta minare eziandio il marito, poiché questi a causa della schifosa tresca anteriore al matrimonio, tenutagli con artificio nascosta dalla sposa, rimane per tutta la vita coniugale esposto sempre alla pubblica derisione, e così si producono ognora effetti ingiuriosi a danno di lui, che trovandosi costretto a subire continuamente una grave umiliazione, deve di necessità sentire una irresistibile ripugnanza verso la moglie.
Un’ingiuria è posta in essere e come tale viene considerata allorché arriva alla persona che ne è l’oggetto, solo in questo punto verificandosi il danno morale da essa proveniente, che dà diritto a riparazione;e nella specie attuale appunto l’offesa al sentimento morale dello sposo Pezzica, crudelmente ingannato sulla sperata piena purità di colei a cui aveva serbato fedele amore per un settennio, non può essere avvenuta che posteriormente al matrimonio se la Guidoni gli aveva sempre abilmente tenuto celata la sua fisica e morale corruzione, senza curarsi di rendernelo in qualche modo, ed anche indirettamente, avvisato prima che egli prestasse il consenso al vincolo indissolubile, occultandogli un fatto di tale natura che da lui conosciuto avrebbe potuto impedire quel vincolo. Il che devesi tanto più nel caso concreto ritenere, ove si rifletta che fu specialmente per le dichiarazioni e le confessioni della Guidoni al matrimonio posteriori che il Pezzica venne ad acquistare la certezza sulla dura realtà dell’inganno di cui era stato vittima.
Nè allo scopo di escludere la grave ingiuria potrebbesi in favore della Guidoni invocare la massima nemo tenetur propriam turpitudinem dete gere, imperocché se nessuno è tenuto a svelare la propria ignominia, non deve essere parimente le cito colla propria turpitudine, con maliziosa simulazione nascosta, gravemente ingannare uno sposo; e quindi se quella benigna massima potrebbe proteggere una sposa, che sia stata vittima incosciente di un atto di carnale violenza e che quale in colpevole potrebbe sperare ed ottenere l’indulgenza del marito, essa non può più essere posta a di fesa d’una sposa, che, come nel caso in esame, abbia tenuto per lungo tempo una ignominiosa tresca prima del matrimonio e che sa d’ingannare lo sposo, fiducioso sulla piena purezza di lei. In questo caso, se essa voleva ripararsi sotto la protezione dell’accennata massima e non essere tenuta a svelare l’ignominia sua, non avrebbe dovuto far altro che non accostarsi più al matrimonio, al qua le nessuno la costringeva, non rendendosi così colpevole di un’atroce ingiuria.
Opporre, nella specie attuale che faccia assoluto ostacolo all’accoglimento della domanda di separazione finora esaminata del Pezzica la circostanza che si tratti di fatti ingiuriosi anteriori al matrimonio, equivarrebbe ad affermare che il fatto per sè stesso di trarre in inganno lo sposo all’atto del matrimonio sulla propria incontaminatezza fìsica e morale, da lui ritenuta per certa, non costituisca da parte della sposa una gravissima offesa al con sorte, mentre la purezza fìsica e morale della sposa è un requisito ordinario che costituisce in gran parte la base e la santità dell’unione coniugale, fondamento della famiglia, la quale ha tanta importanza nella società, e che distingue il vincolo del matrimonio dalle materiali unioni sessuali.
Trattandosi pertanto di un’ingiuria che è commessa ed è recata dalla sposa, che è ricevuta ed è risentita nei suoi effetti dallo sposo, e che quindi non è estranea nè anteriore al matrimonio, non vi ha più ragione per negare la chiesta applicazione dell’art. 150 succitato quando per la gravità dell’ingiuria recata al marito, disonorato ed esposto al pubblico dileggio per sozza tresca celatagli già tenuta dalla sposa, a lui viene a riuscire in sopportabile la convivenza colla moglie, per il qual caso di gravità appunto viene il rimedio della separazione dalla legge accordato.
Ed un argomento in favore dell’assunto di Pezzica si potrebbe ricavare dal successivo art. 151 cod. civ., secondo cui uno dei coniugi, che non sia consapevole della condanna criminale subita dal l’altro coniuge anteriormente al matrimonio, ha diritto a chiedere la separazione, poiché, sebbene anche in questo caso l’offesa tragga la sua origine da un fatto al matrimonio anteriore, tuttavia essa si fa consistere nell’inganno usato alla buona fede del coniuge inconsapevole coll’esserglisi lasciata ignorare la condanna prima delle nozze, per modo che quell’offesa proveniente dalla conoscenza, posteriore alle nozze medesime, di un fatto verifica tosi anteriormente, si considera pure come esplicantesi ed avente effetto dopo il matrimonio.
Ripugnerebbe infine anche all’equità il non con cedere a Pezzica la chiesta separazione e costringerlo a trascinare una ripugnante convivenza con una sposa che ha macchiato quel nome che egli le diede credendola pura e incontaminata, e che ha compromesso tutto il suo avvenire, perché ciò basta a rendere impossibile quel consortium totius vitae, che del matrimonio è precipuo scopo.
Per questi motivi, ecc.
(Foro Italiano, 23, 1059, 1898)