La vita
Francesco Calasso nacque a Lecce il 19 luglio 1904. Si laureò in giurisprudenza nel 1927 a Roma; nel 1928 diventò assistente; nel 1929 ebbe la libera docenza e nel 1930, dopo avere studiato in Germania, ricevette l’incarico di storia del diritto italiano nell’Università di Urbino.
Nel 1932 vinse la cattedra a Catania; fu poi a Modena (1933), a Pisa (1934) e a Firenze (1935-45). Nella primavera del 1944, dopo l’uccisione di Giovanni Gentile, fu detenuto per venti giorni alle Murate – il carcere fiorentino – insieme ad altri intellettuali antifascisti, prova da parte sua «d’amare poco i padroni di quel tempo e di esserne poco amato». Finita la guerra fu chiamato a Roma (1945), dove insegnò fino alla morte e dove dal 1955 fu preside della facoltà giuridica.
Fu socio, prima corrispondente (1947) e poi nazionale (1958), dell’Accademia dei Lincei, oltre che socio di altre accademie; nel 1954 vinse il premio dei Lincei.
Con Filippo Vassalli e poi con Pietro de Francisci diresse la «Rivista italiana per le scienze giuridiche»; nel 1957 fondò gli «Annali di storia del diritto», e dal 1958 diresse l’Enciclopedia del diritto.
Morì a Roma il 10 febbraio 1965.
Le prime polemiche
La novità delle posizioni di Calasso non fu accolta da tutti, e questo innescò una querelle molto vivace, che si svolse su vari fronti.
In primo luogo, la polemica di Calasso si svolse sul fronte del diritto comune, contro Emilio Bussi, contro Teobaldo Checchini, contro Francesco Carnelutti, contro altri, fino alle critiche che gli vennero dopo la morte da chi espresse riserve «sulla riduzione del diritto italiano a storia del diritto comune, della quale […] essa fu solo un elemento» (Marongiu 1965, pp. 380-81).
Calasso condusse la sua polemica anche su singoli temi specifici, come quello delle origini italiane o francesi della formula rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator («il re che non riconosce un superiore nel proprio regno è imperatore»), che si estese al problema della sovranità e che lo contrappose a Francesco Ercole, o quello sulla rilevanza del pensiero canonistico, che lo rese ‘antagonista’ al pensiero di Sergio Mochi Onory.
Della sua opera complessiva si discusse e si scrisse molto, in quanto subito emerse con forza la verve battagliera che segnò quasi tutta la sua attività, e che talvolta è evidente nei titoli stessi (come in quello Elogio della polemica).
Le discussioni furono alimentate dal coraggio, dalla decisione e dall’autorevolezza con i quali egli pose il tema del diritto comune al centro della storia del diritto italiano ed europeo nel Medioevo: come scrisse Ennio Cortese (1982), citando Bruno Paradisi, egli
rivelò subito, con immediatezza, l’intenzione non soltanto di rivedere le opinioni correnti su quel fatto storico, ma anche di scrivere la storia del diversamente da quanto si era fatto sino a quel momento (p. 798).
Allora era ancora forte la tradizione che considerava il diritto medievale come un’appendice del diritto romano, sotto la suggestione di Friedrich Carl von Savigny e di altri con lui, come Paul Koschaker; ed era altrettanto forte, sotto l’influenza del positivismo, la tradizione storiografica che, al più, si era spinta a concepire il diritto medievale come l’incontro di tre elementi, o ‘fattori storici’, quello romano, quello germanico, quello canonico.
Tra coloro che erano legati a questa visione delle cose c’era anche Enrico Besta, che quando Calasso cominciò, nemmeno trentenne, a scrivere di queste vicende, aveva il doppio dei suoi anni ed era, soprattutto e a ragione, lo storico giurista più autorevole e più rispettato di tutti. Eppure il giovane Calasso entrò decisamente, e a più riprese, in polemica con lui, anche se gli riconobbe il merito di essersi posto «apertamente» il problema del diritto comune.
Le valutazioni mature
Il diritto comune fu il tema sul quale Calasso si arrovellò sempre, fin dall’inizio del suo lavoro. Questo merito gli fu riconosciuto da Paradisi: già nel 1946, tracciando un bilancio della storiografia giuridica, questi indicò in Calasso chi aprì «la nuova pagina nella storia della nostra disciplina» (Paradisi 1946-1947, poi in Id., Apologia della storia giuridica, 1973, pp. 168-70 ).
La sua soluzione fu semplice, solo che l’approccio al diritto medievale non fosse dogmatico o positivistico, ma esclusivamente storico.
Certo, si poteva studiare la circolazione dei testi normativi – le fonti – secondo una tradizione e una metodologia erudita che poi fu detta ‘filologica’.
Aveva fatto così Federico Patetta, un altro tra i maggiori, che si rifaceva anche lui all’impostazione data da von Savigny e da chi, in Germania e in Italia, ne aveva seguito le tracce.
Così si scoprì una quantità di scritti perduti e si recuperarono strumenti fondamentali di lavoro: è un metodo che è stato praticato moltissimo, e con profitto, anche dopo Calasso – si potrebbe dire addirittura nonostante Calasso – in Europa come in Italia, trovando la sua espressione più alta in Domenico Maffei e in Cortese, quest’ultimo allievo di Calasso.
Così, inoltre, si ricostruì la storia positiva delle fonti del diritto, se ne studiarono datazione e paternità, si affrontarono questioni di critica del testo, sulla strada di una ‘storia esterna’ delle fonti.
Questa per Calasso non era ancora storia, poiché la storia cominciava solo dopo la ricerca erudita. Egli affermò che in quel caso si sarebbe dovuto fare in Germania, «lasciando da parte quella parola Geschichte ch’era stata tradizionale, ma fuori di posto, in altre classiche opere».
Scrivendo queste pagine, Calasso era ben diversamente maturo rispetto agli anni dell’invettiva durissima del 1936 contro Bussi, o della critica severa a chi aveva affrontato i suoi stessi temi, come quella del 1950 contro Checchini. Ma anche gli interlocutori erano diversi, e ciò gli consentì di confrontarsi di nuovo, e con grande chiarezza, con la storiografia giuridica italiana e di contestare a fondo la tradizione positivistica che la ispirava.
La convinzione dei «compiti e doveri della scuola universitaria, come scuola di alta cultura ed essenzialmente formativa» rimarca un aspetto di una personalità molteplice, che si spese anche nella saggistica politica e che preparò un progetto di riforma degli studi della facoltà di Giurisprudenza (articolato su un biennio comune e un secondo di specializzazione) che, se avesse trovato attenzione, forse avrebbe evitato tanti scempi successivi.
È ovvio che la constatazione del certo, cioè il dato, è il primo momento del processo mentale dello storico: l’ultimo è la reviviscenza del dato, che è atto individuale dello storico, cioè creativo (Metodo e poesia, cit., p. 129).
Però la creatività non si risolve, irrazionalisticamente, nell’intuizione di una linea evolutiva, ma procede attraverso le fonti verso «il problema che è alla base di tutti i possibili elenchi ragionatissimi e criticissimi», per comprendere il senso di un fenomeno giuridico: il problema è quello del valore storico e quindi quello «degl’istituti come organi viventi», dove Calasso fa proprio l’insegnamento di Bonfante, che «la funzione e l’efficacia degli elementi di un sistema si possa alterare, mentre rimane inalterata la sua struttura fondamentale».
Dietro il problema del metodo prende corpo un’altra esigenza di fondo del lavoro complessivo di Calasso, l’attenzione congiunta ai problemi delle fonti e ai problemi degli ordinamenti, come attenzione congiunta ai fenomeni e agli istituti del diritto privato e a quelli del diritto pubblico, in una sorta di «inconsutile tunica che non era lecito dividere e affidare alle sorti» (Equità: premessa storica, in Enciclopedia del diritto, 15° vol., 1965, ad vocem, poi in Storicità del diritto, cit., p. 376).