Farinacci nacque a Roma il 1° novembre 1544. Figlio di Marcello, dottore in utroque, notaio capitolino, fu avviato presto agli studi giuridici. Nel 1561 si iscrisse allo Studium urbis: il 9 dicembre 1567 conseguì la laurea a Roma; forse aspirò vagamente a una cattedra, che gli fu comunque negata a causa delle dissolutezze per le quali si era già segnalato. La sua vita, infatti, fu punteggiata in misura esorbitante da crimini e da episodi di corruzione e malaffare che provocarono ripetuti provvedimenti giudiziari a suo carico.
Non appena laureato, ebbe la nomina di commissario generale di Bracciano, feudo degli Orsini, ma già nel corso del 1568 passò alla luogotenenza del governatorato di Civitavecchia. Nel 1569 e nel 1570 fu consigliere del capo del rione Trastevere, dov’era nato e dove la famiglia possedeva beni; ricoprì questo ufficio anche nel 1581 e nel 1584. Nel 1577 aveva presentato, ma senza successo, la propria candidatura a fiscale nella Rota criminale di Genova, appena istituita. Si dedicò quindi all’avvocatura, nella quale conquistò negli anni un crescente e incontrastato prestigio.
Crebbe però anche la fama dei suoi misfatti. Già al principio del 1570 aveva subito una carcerazione, della quale non conosciamo i motivi. Nel 1580 il governatore di Roma, su ordine dello stesso pontefice Gregorio XIII, lo sospese dal «procurare», per i ripetuti reati commessi, anche se Farinacci riuscì a sfuggire alle «forche et alla galera». Nelle cronache della capitale fece scalpore un episodio del 1582, quando egli fu protagonista di una rissa che gli causò la perdita dell’occhio sinistro e una profonda cicatrice sul volto. Guarito a fatica e deciso a fare vendetta con ogni mezzo, nel 1584 fu sorpreso e arrestato dai birri mentre di notte, e in possesso di armi proibite (un archibugio), si aggirava a caccia dei suoi nemici. Per cinque mesi fu rinchiuso nel carcere di Tor di Nona, in attesa di giudizio. Ma morto Gregorio XIII il 10 aprile 1585 e aperte, come d’uso, le carceri in sede vacante, poté ritornare ai suoi affari e dare impulso alle sue fortune.
In quell’anno difese e riuscì a salvare dalla pena capitale, a fronte di una cospicua composizione, Roberto d’Altemps, primo duca di Gallese, figlio del cardinale Marco Sittico, uomo di spicco nel potente partito curiale degli Aldobrandini, ricevendone in cambio una gratitudine preziosa e duratura. Il cardinale, infatti, gli affidò il governatorato dei propri feudi di Tossignano e Fontana in Romagna, lo designò nel 1587 come tutore di Giovanni Angelo d’Altemps e lo sostenne poi sempre nella carriera. Nel testamento (morì nel febbraio 1595) lo designò governatore perpetuo del feudo di Gallese, concedendogli anche di abitare nel suo palazzo romano.
Il 10 febbraio 1591 Farinacci ottenne la nomina, di grande rilievo, a luogotenente criminale dell’uditore generale della Camera apostolica, monsignor Camillo Borghese (poi papa Paolo V dal 1605). Nel 1594, per usufruire di una pensione ecclesiastica, prese la prima tonsura. Ma ben presto scoppiarono nuovi scandali. Nel 1595 fu accusato di sodomia con un sedicenne, che in un primo interrogatorio confermò le accuse. Le cose volsero in breve al peggio, perché nel corso dell’istruttoria emersero le sue scomposte iniziative di subornazione e intimidazione di accusatori, giudici e testimoni. Fu perciò dapprima spostato dalla luogotenenza criminale della Camera alla Sacra consulta, poi sospeso da qualsiasi attività e assegnato agli arresti domiciliari. Dal processo si salvò per le ritrattazioni del giovane (verosimilmente comprate) e per l’intercessione di prelati della cerchia del papa. Pare che, nell’accondiscendere alle istanze di quest’ultimo, papa Clemente VIII esclamasse, giocando sul cognome di Farinacci: «Farina ista bona est, vel pollis est potius; sed non saccus cui ille includitur bonus est, sed foedus ac turpis» (questa farina è buona, anzi è fior di farina, ma il sacco che la contiene non è buono, ma turpe e ripugnante). Con motu proprio del 7 agosto 1596, il pontefice lo assolse con formula piena da ogni imputazione, quand’anche di delitti «gravi ed enormi». Farinacci poté quindi tornare alla Consulta, al governatorato di Gallese e all’avvocatura.
Del resto, il pesante rovescio influì poco sulle sue ambizioni. Mirava alla carica di procuratore generale del fisco, e sia nel 1595 sia nel 1596, proprio mentre pendeva l’istruttoria cui si è accennato, corse voce di una sua nomina imminente. Fu fermato dall’opposizione di influenti gruppi curiali, motivata fondatamente con la sua notoria corruttibilità. Nel 1597, e poi di nuovo nel 1599, fu sul punto di ricevere la nomina di giudice criminale del vicariato o del tribunale del governatore, ma la strada gli fu sbarrata ancora una volta.
Nel 1599 accadde l’episodio più frequentemente ricordato dai suoi biografi: la difesa assunta in agosto di Giacomo, Beatrice e Bernardo Cenci, imputati dell’assassinio del padre Francesco insieme con la seconda moglie di lui, Lucrezia Petroni. Il delitto e il processo hanno ispirato leggende popolari, opere letterarie, teatrali, cinematografiche e così via, che spesso hanno elevato Beatrice a eroina e martire di un padre e di una società perversa. In realtà il delitto giunse a conclusione di una torbida vicenda familiare e fu consumato dopo lunga premeditazione.
La sua fama come criminalista era giunta nel frattempo al suo apice. Nel 1604 gli Avvisi di Roma riferirono (ma senza fondamento) di una sua nomina al tribunale del Torrone di Bologna. L’elezione, l’anno successivo, al soglio pontificio di Paolo V aprì nuove prospettive alle sue ambizioni. Nel maggio poté ritornare dalla Consulta alla luogotenenza penale della Camera, e il 14 febbraio 1606 poté finalmente ottenere l’ufficio di procuratore generale del fisco, carica con la quale si fece «Monarca di tutti li affari criminali, dipendendo da lui li Giudici quali soprafà coll’astutia, et col sapere».
In settembre fu addirittura a un passo dall’accedere al governatorato della capitale. Si frapposero ostacoli insormontabili, sollevati in particolare dai cardinali Antonio Maria Sauli e Michelangelo Tonti. Di fronte ai suoi ripetuti tentativi di ottenere la nomina, tra il 1608 e il 1610, Tonti, allora potentissimo in Curia, fu irremovibile, e giunse a minacciare di rendere pubblici contro di lui documenti di estrema gravità. Lo si sospettava inoltre di slealtà nei confronti dei Borghese, a causa dei persistenti legami con gli Aldobrandini, dei quali era stato creatura.
Fatti odiosi di estorsione e di corruzione venivano giornalmente alla luce. Il papa fu costretto a destituirlo dal fiscalato nell’aprile 1611. Farinacci perse anche la carica di uditore generale del ducato d’Altemps, rischiò un processo per appropriazioni indebite e, a scopo probabilmente intimidatorio, fu aperto un procedimento dell’Inquisizione per alcune sue proposizioni sospette di eresia. L’istruttoria però si concluse con un nulla di fatto, e il papa, che ne apprezzava le competenze giuridiche, lo ricevette già ai primi di maggio in udienza, in segno di clemenza. In dicembre lo consultò nella spinosa questione dell’arcivescovo di Salisburgo, Wolf Dietrich von Ratenau, incarcerato per ordine del duca Massimiliano I di Baviera. Nel 1615 Paolo V lo favorì ancora, accogliendo il suo ricorso per diffamazione contro il giurista Sebastiano Guazzini, che fu condannato.
La salute di Farinacci però declinava. Colpito da apoplessia alla fine del 1617, morì a Roma il 31 dicembre dell’anno successivo.