47. Arbitri, Giudici e Pallone: Il Totocalcio (1949)

Conviene, per esigenza di chiarezza invertire l’ordine delle questioni con gli appelli proposti, al giudizio di questa innanzitutto questo quesito: quale è l’interpretazione esatta dell’art. 15 del regolamento del concorso pronostici abbinato alle partite di calcio, organizzato dal Coni, regolamento in vigore nell’ottobre 1947?

Trattasi del seguente articolo:

“Agli effetti di stabilire la graduatoria del concorso faranno stato, sempre ed unicamente, i risultati conseguiti sul terreno di giuoco alla presenza del pubblico, in partita regolare, sempreché le reti fatti o subite da ciascuna squadra siano state concesse dall’arbitro sul terreno di gioco. Successivi mutamenti dei risultati stabiliti per qualsiasi motivo dalle autorità sportive competenti, annullamenti di partite, penalizzazioni od altri provvedimenti qualsiasi, non sono presi in considerazione.
Non saranno del pari prese in considerazione le partite comunque anticipate, se non nei casi in cui ne sarà data notizia dall’Ente organizzatore o dall’Ente gestore del concorso a mezzo dell’organo ufficiale prima della disputa della partita.
Le partite sospese od interrotte anticipate o non valide agli effetti del concorso, si considerano come non avvenute. In tal caso saranno presi in considerazione i risultati delle partite incluse nelle schede sotto la denominazione di partite di riserva, normalmente in numero di tre: le medesime verranno assunte sotto l’ordine in cui sono disposte”.

Ai fini della interpretazione della trascritta norma non si può accettare, anche perché sarebbe sterile di conseguenze, la distinzione, suggerita dalla difesa dell’appellante principale, fra gara come fatto sportivo e gara come fatto giuridico. Non è esatto nemmeno parlare di gara sportiva con conseguenze giuridiche.

La partita di calcio rimane sempre e soltanto un fatto sportivo.

Solo è che questo, attratto nell’orbita del diritto, assume un aspetto nuovo, differenziatosi da quello originario. A seguito dell’abbinamento della gara di calcio al concorso pronostici, si può parlare di aspetto sportivo ed aspetto giuridico della stessa. Sotto questo secondo aspetto la partita di calcio, in quanto collegata a tanti contratti di scommessa, gioca il ruolo di elemento basilare di quelle innumerevoli convenzioni che vengono a stringersi, secondo alcuni fra la Sisal ed ogni scommettitore, secondo altri fra tutti gli scommettitori che settimanalmente partecipano al pronostico.

Col pronostico lo scommettitore manifesta la sua opinione intorno all’esito delle dodici partite di calcio che verranno disputate sui vari campi. Se le sue previsioni risulteranno esatte, la posta, costituita dal cosiddetto montepremi, gli sarà attribuita nella misura consentita dal diritto concorrente di tutti gli altri scommettitori, le cui previsioni si siano in pari grado avverate.

Ma il «fatto incerto» sul quale convergono tutti i pronostici, viene naturalmente attinto al campo sportivo. È uno dei tanti casi di rinvio da uno all’altro ordinamento; l’ordinamento giuridico rinvia a quello sportivo. La peculiarità del caso è data dal fatto che il rinvio si realizza fra due ordinamenti eterogenei: ne discende che il rinvio è necessariamente contenuto nei limiti in cui il fatto richiamato può avere rilevanza per l’ordinamento richiamante.

La prima mitica schedina del totocalcio, che nemmeno si chiamava ancora così!

Così, le diciassette regole, che costituiscono le «tavole» del giuoco di calcio, dal punto di vista sportivo si dispongono in un certo ordine di importanza, a seconda della influenza che esercitano sullo svolgimento e sull’esito della gara. Dal punto di vista giuridico, invece, fra le regole stesse si opera una discriminazione, rimanendo alcune, e la maggior parte, giuridicamente ininfluenti.

La regola 8, ad esempio, per cui il calcio di inizio del primo periodo di gioco deve essere dato dalla squadra favorita dalla sorte e quello del secondo dalla squadra che non lo ha effettuato al principio della gara, è regola la cui inosservanza farebbe inorridire lo sportivo. Lascerebbe, al contrario, completamente indifferente l’uomo di legge, che allo svolgimento della partita dovesse aver riguardo per stabilire se e chi, fra gli scommettitori, possa concorrere alla ripartizione della posta.

Queste considerazioni mettono già sull’avviso che alcune soltanto di dette regole possono essere state richiamate dalla norma regolamentare in esame e non tutte, come pur sembrerebbe, a prima vista, essersi fatto con l’inciso «il risultato conseguito sul terreno di gioco, alla presenza del pubblico in partita regolare…».

Con queste ultime tre parole non si è voluto cioè far riferimento ad una partita svoltasi con l’osservanza di tutte le regole del gioco. È l’art. 15, nella seconda parte, che, distinguendo, opera la discriminazione. Nella prima parte si ha riguardo al risultato conseguito sul terreno di gioco alla presenza del pubblico: nella seconda (quando si discorre dei successivi mutamenti dei risultati) al risultato stabilito dalle autorità sportive. Ora è errato dedurre da questa distinzione, come hanno fatto i primi giudici, che «la partita di calcio è suscettibile di due decisioni, quella dell’arbitro sul campo e quella successiva delle competenti autorità sportive». A parte il rilievo che il risultato di una partita di calcio non viene «deciso» dall’arbitro, il concetto di «decisione» include qualche cosa di definitivo. Si è voluto, invece, semplicemente tener distinto il risultato provvisorio (quello che, a partita ultimata, è apparso al pubblico, attraverso le fasi del gioco e le eventuali decisioni dell’arbitro) dal risultato definitivo (quello che, a seguito del vaglio di tutto lo svolgimento della partita, viene accertato e fissato dalle autorità sportive).

Il gol dell’1-0 di Remondini di Lazio-Inter

Lo stesso art. 15 consacra la scelta del risultato provvisorio, fatta dal legislatore, ai fini della regolamentazione di quel negozio giuridico che è la scommessa al totocalcio. Per la ovvia ragione che solo il risultato provvisorio, respingendo ogni contestazione e qualsiasi cavillo, poteva rendere possibile la indispensabile sollecita definizione del concorso ed il pagamento dei premi.

È il medesimo art. 15 che, così disponendo, ha circoscritto il rinvio alle regole di gioco necessarie e sufficienti a stabilire il risultato provvisorio della gara. Il quale limitato richiamo viene a riallacciarsi a quella distinzione, nel campo del diritto ben nota, fra requisiti di esistenza e requisiti di regolarità. Accontentandosi del risultato provvisorio, il legislatore veniva a richiamare, con il riferimento alla «partita regolare», quei requisiti di esistenza che si concretano negli elementi assolutamente in dispensabili perché di una partita di calcio si possa parlare e cioè: soggetti, oggetto, luogo e tempo. Sono le regole 3, 5, 6, le quali indicano i soggetti del gioco nelle squadre dei giocatori e nell’arbitro con i due guardialinee, suoi coadiutori. È la regola 2, che menziona le caratteristiche della palla. È la regola 1, che fissa le caratteristiche del campo di giuoco. È, infine, la regola 7, che stabilisce la durata della partita. Tutte queste regole, e queste soltanto, essendo richiamate, la locuzione «risultato conseguito sul terreno di gioco alla presenza del pubblico, in partila regolare» sia ad indicare, ad avviso di questa Corte: «il risultato con seguito sul terreno di gioco in una partita nello svolgi mento della quale siano state osservate le regole 2, 3, 5, 6 e 7 del giuoco del calcio».

A questa tesi si contrappone quella sostenuta dal Coni e condivisa dai primi giudici, secondo cui «agli effetti del concorso pronostici è regolare la partita che tale sia stata proclamata dall’arbitro sul campo di gioco, in presenza del pubblico»; tesi che, sostanzialmente, pone a fondamento le seguenti premesse:

1. L’arbitro “decide” sul campo, in presenza del pubblico, il risultato della partita e tale decisione è, per la graduatoria del concorso pronostici, la sola normativa, essendo ininfluente l’eventuale diversa decisione successiva delle autorità sportive, a meno che l’arbitro non abbia agito con dolo;
2. La durata della gara è uno degli elementi tecnici la cui valutazione è riservata esclusivamente, e perciò insindacabilmente, all’arbitro;
3. L’espressione “in partita regolare”, contenuta nell’art. 15 dell’abrogato regolamento del Totocalcio, era meramente pleonastica e perciò è stata, nel nuovo, eliminata.

A dimostrazione delle inesattezze, che in tutte le sue nunciate proposizioni sono incluse, è necessario portare l’esame sulla regola 5 del giuoco calcio, richiamata, per concorde ammissione, dall’art. 15 del regolamento del Totocalcio.

Ad onta delle imperfezioni tecniche di questa regola (non sembra corretto, ad esempio dire: «l’arbitro deve avere il potere discrezionale»), se ne ricava, senza sforzi, la figura dell’arbitro.

L’arbitro è colui che, in una partita di calcio: dirige la gara, assicurando il rispetto delle regole del gioco; decide su ogni contestazione; punisce. A tutte queste, che sono le essenziali sue attribuzioni, corrispondono poteri-doveri specificatamente indicati.

L’arbitro deve:

• prendere nota dei fatti del gioco (reg. 5, lett. b); funzionare da cronometrista (reg. 5, lett. 6); curare che la partita abbia la durata regolamentare o convenuta (reg. 5, lett b); aggiungere ad ogni periodo il tempo perso per incidenti o altra causa (regola 7, lett. a); prolungare la durata della partita per permettere l’esecuzione di un calcio di rigore alla fine del primo e del secondo tempo (regola 7, lett. b); far pervenire in determinate ipotesi, un rapporto dettagliato all’ente federale competente (reg. 5, lett. e); comunicare all’ente federale competente il nome del giocatore colpevole di determinate mancanze (reg. 5 lett. d); impedire che, all’infuori dei giocatori e dei guardalinee, qualsiasi persona entri nel terreno del gioco, senza la sua autorizzazione (reg. 5, lett. e); interrompere la partita se ritiene che un giocatore sia stato seriamente ferito (reg. 5, lett. I); far trasportare detto giocatore fuori dal campo di gioco non appena possibile e far riprendere il gioco immediatamente (reg. 5, lett. I); dare il fischio di ripresa di giuoco dopo ogni interruzione (reg. 5, lett. I); riferire al competente Ente federale sulla condotta riprovevole di un guardialinee o nel caso di un suo intervento non giustificato (regola 6).

L’arbitro può:

• interrompere il gioco per tutte le infrazioni alle regole (reg. 5, lett. c); sospendere o troncare definitivamente la partita ogni qualvolta lo ritenga necessario in dipendenza delle condizioni atmosferiche, di intromissione di spettatori o per altre cause (reg. 5, lett. c); ammonire, dal momento in cui entra nel terreno di gioco, ogni giocatore che tenga contegno scorretto o antisportivo ed impedire allo stesso di prendere parte al gioco in caso di recidiva (reg. 5 lett. d); espellere definitivamente dal campo di gioco, senza preavvertimento, ogni giocatore colpevole di condotta violenta (reg. 5, lett. g).

L’arbitro, infine, deve e può

• punire, astenendosene solo quando, punendo, egli ritenesse di favorire la squadra che ha commesso il fallo (reg. 5, lett. a); computare discrezionalmente il tempo perso per incidenti o per altra causa, ai fini del recupero (regola 7, lettera a).

Ora già dalla contrapposizione di quanto deve fare a quanto può fare emerge chiaramente, in una prima approssimazione, come l’attività dell’arbitro si svolga parte in sfera vincolata, parte in sfera discrezionale. Egli risolve questioni e constata fatti: impegna in quelle la sua «volontà», interessa in questi la sua «scienza». Tutto ciò che egli deve fare dà risalto alla sua figura, preminente, di giudice; poiché le apparenti facoltà discrezionali, che gli sono riconosciute, si risolvono in un potere di decisione.

Come giudice ha poteri decisori che nettamente si distaccano dai semplici poteri registratori.

Come limite nel tempo «la sua giurisdizione incomincia dal momento nel quale egli fischia il calcio di inizio ed il suo potere di punire si estende commesse durante una temporanea sospensione del gioco o quando la palla è fuori gioco» (regola 5, lett. a).

Ma la insindacabilità dei suoi giudizi è espressamente limitata alle «decisioni su questioni di fatto per quanto si riferisce al risultato della partita» (regola 5, lett. a); onde, argomentando a contrariis, si deve affermare che per tutte le altre questioni risolte dall’arbitro, quelle di diritto e quelle di fatto che non si riferiscono al risultato della partita, la sua decisione è soggetta a controllo; come è ovviamente sindacabile tutta la rimanente attività vincolata, di constatazione, registrazione e documentazione di fatti; attività che non involge alcun potere decisorio. E si può, altresì, affermare che non è l’arbitro a «decidere» sul terreno del gioco il risultato della partita. Egli dirige la gara, decide ogni contestazione e punisce (regola 5); quindi dichiara vincente la squadra che, durante la partita, ha segnato il maggior numero di porte e, se nessuna porta o un ugual numero di porte sono state segnare, dichiara pari la partita (regola 10). Il risultato della gara scaturisce così naturalmente ed apertamente da tutta l’attività spiegata dall’arbitro ed è immediatamente acquisito dai giocatori e dal pubblico attraverso le porte segnate e concesse. Ed anche a voler riconoscere un obbligo dell’arbitro a dichiarare, a partita ultimata, formalmente al pubblico, oltre che nel rapporto arbitrale, il risultato, sarebbe questa attività di mera constatazione, giammai di decisione.

Né può sfuggire tutta l’importanza di questo rilievo, ove si consideri che solo i suindicati chiarimenti consentono di cogliere l’errore della tesi combattuta, che vede nell’art. 15 una contrapposizione fra «decisione dell’arbitro» e «decisione dell’autorità sportiva». Solo negando il carattere di decisione alla dichiarazione fatta dall’arbitro sul campo di gioco, del risultato della gara, appare chiaro come la contrapposizione corra fra «risultato provvisorio» e «risultato definitivo» e come nel succitato art. 15 si ritenga normativo, per la graduatoria del concorso pronostici, il solo risultato provvisorio.

Il trafiletto su La Stampa del 20 ottobre 1947

Con che, ogni questione si concentra sulla natura dell’attività che l’arbitro spiega allorché computa il tempo di durata della gara: se egli compie un atto di volontà o un atto di scienza; se opera nell’ambito dei suoi poteri di decisione o dei suoi doveri di constatazione; se agisce nella sfera di attività discrezionale o in quella di attività vincolata.

A favore di quest’ultima tesi sta, ad avviso della Corte, anzitutto l’argomento letterale. Alla lettera b) della regola 5 son posti sullo stesso piano il «prender nota», il «funzionare da cronometrista» e il «curare». La prima e terza sono certamente attività di registrazione; tale deve essere anche la seconda. Anche perché cronometrare una partita vuol dire niente altro che constatare sul cronometro il decorso del tempo regolamentare. Del resto, rispetto all’arbitro, il fatto umano che dia luogo ad una questione di gioco non può essere equiparato a quel fatto naturale che è il decorso del tempo. Per il primo l’arbitro giudica; per il secondo, leggendo su una macchina, fa una mera constatazione. Essendo la registrazione del tempo rimessa al cronometro, è possibile che due orologi diano indicazioni discordanti. Sarà questione di accertare, in questo caso, quale dei due è impreciso. Ma non per questo si può dire che la constatazione del decorso del tempo importi un giudizio di valutazione da parte dell’uomo.

C’è infine un argomento fornito dalla lettera b) della regola 7. Se la partita deve durare due periodi uguali di tempo di 45 minuti ciascuno ed è espressamente detto che il computo del tempo perso per incidenti o per altra causa è rimesso al potere discrezionale dell’arbitro, se ne deve dedurre che per il rilievo del tempo principale non è consentito un computo discrezionale. Il contrario sarebbe in aperto contrasto con il dovere che l’arbitro ha di «curare che la partita abbia la durata regolamentare» e di «recuperare il tempo perduto per incidenti o altra causa».

La regola 7 7, insomma, è, nel gioco del calcio, fondamentale: senza l’osservanza di essa una gara di calcio non esiste. Tanto ciò è vero che, non solo il sistema del gioco prevede un controllo del cronometro, ma le autorità sportive si sono preoccupate, con opportuni suggerimenti agli arbitri, di facilitarlo. L’arbitro può ai guardialinee ufficiali, designati dalla Federazione, o neutrali affidare il controllo del computo del tempo, da lui cronometrato, agli effetti della durata della partita (vedasi il libro «Le regole del gioco di calcio», guida per gli arbitri, edito dalla Federa zione it. gioco calcio, 1939, pag. 204).

L’arbitro non deve assolutamente comunicare l’ora ai giocatori; ma, per facilitare il controllo del cronometraggio sulla partita, può comunicarla ai guardialinee, sempreché ufficiali. Pur essendo l’arbitro il cronometrista unico della gara, gli si raccomanda vivamente, oltre che di munirsi sempre di due orologi dal funzionamento provato e regolare, di fare in modo che i guardialinee segnino la stessa sua ora al principio del primo e del secondo periodo di gioco.

Tutti questi suggerimenti tendono, evidentemente, non soltanto al fine di fornire all’arbitro la possibilità di correggere eventuali errori a lui segnalati dai guardialinee, ma altresì di mettere a disposizione delle autorità giurisdizionali sportive attendibili fonti di controllo. Così come è accaduto nella specie, avendo la Lega nazionale italiana, e successivamente le superiori giurisdizioni, potuto escludere la irregolarità lamentata dalla ricorrente «Internazionale», dopo aver valutato e le dichiarazioni scritte dell’arbitro e quelle del giudice di campo. Per cercare di eliminare eventuali contestazioni al riguardo da parte del pubblico soccorre soltanto l’assoluto divieto, fatto ai guardialinee, di dare a chicchessia informazioni sull’ora «ad evitare che possano essere in contrasto con quelle dell’arbitro».

Altra e ben diversa questione è se sia possibile, in pratica, e quindi ammissibile, un controllo dell’operato dell’arbitro in ordine al tempo, quando, nel primo o secondo periodo di gioco, a causa di interruzioni di durata apprezzabile, siano decorsi dal calcio di inizio al fischio della fine del tempo o della partita più di quarantacinque minuti. In tal caso nell’attività di registrazione del decorso del tempo principale interferisce il potere discrezionale del computo del recupero, con la conseguenza che un controllo è escluso, non essendo possibile scindere le due attività concorrenti dell’arbitro. Forse il controllo deve escludersi anche quando il maggior decorso di tempo sia dovuto a guasto del cronometro, di cui l’arbitro è munito. La letteratura sportiva ha registrato un caso del genere, nel quale la gara, internazionale, fu ritenuta regolamentare. Nella seconda partita azzurra del dopoguerra, disputatasi fra l’Italia e l’Austria a Milano il 1° dicembre 1946, un guasto al cronometro dell’arbitro fece sì che la gara durasse anziché 45′ oltre 49′, e la seconda rete austriaca venne segnata proprio al 46′ della ripresa.

Ma quante volte, a far tempo dal calcio di inizio al fischio della fine del periodo di gioco, siano decorsi meno di 45′, salvo lo scarto normale del cronometro, ci siano o non ci siano state interruzioni, la partita, secondo una corretta interpretazione della regola 7, non può ritenersi regolamentare. La riprova della fondatezza di questo assunto è data da queste considerazioni. Solo così argomentando si riesce a rispondere, senza offendere la logica, al quesito se possa considerarsi regolare una partita che l’arbitro chiuda dopo dieci, venti, trenta o quarantadue minuti dalla ripresa. E si deve rispondere che quante volte si rimanga al di sotto dei 45 minuti per ogni periodo di gioco, una partita di calcio non esiste. Il criterio, sugge rito dalla difesa del Coni, di considerare la partita interrotta se chiusa al 15′ o al 30′ e così via, e regolare se chiusa all’87 è manifestamente privo di qualsiasi giustificazione.

Quanto poi all’art. 15 del regolamento del Totocalcio la più autorevole ed eloquente conferma della esattezza dell’interpretazione accolta è fornita dalla circostanza che nel nuovo regolamento del Totocalcio, l’art. 16 del regolamento abrogato è stato riprodotto nel 4°, 5°, 6°, 7° ed 8° comma dell’art. 8, con la variante, fra le altre, della eliminazione dell’inciso «in partita regolare». Questa espressione era, secondo il Coni, pleonastica e la sua eliminazione non ha mutato il carattere meramente interpretativo della nuova formula. Si è dimostrato al contrario, come, a detta espressione dovendosi necessariamente riconoscere un significato, essa valesse come richiamo alle regole 2, 3, 5, 6 e 7 del regolamento sportivo. Con la sua eliminazione, non potendosi più parlare di rinvio alle regole del gioco, la norma è stata privata di quanto era sufficiente a conferirle diversa sostanza. Con tiene, è vero, il 4° comma dell’art. 8 anche un chiarimento, quando qualifica «esito definitivo ed incontestabile», ai fini della graduatoria del concorso pronostici, il risultato conseguito pubblicamente sul terreno di gioco; ma tale chiarimento, contribuendo a fissare il nuovo contenuto della disposizione, ne conferma il valore innovativo.

La innovazione, dunque, è sostanziale nel nuovo testo che suona: «Ai fini della graduatoria del concorso deve essere assunto quale esito definitivo ed incontestabile di ogni partita il risultato conseguito pubblicamente sul terreno del gioco, sempre che le reti fatte o subite da ciascuna squadra siano state concesse dall’arbitro».

Ora sì che gli scommettitori sanno che il «fatto incerto», su cui un pronostico può essere indirizzato, è soltanto il risultato di ogni partita quale apparirà, sul terreno di gioco, attraverso le reti segnate e concesse e attraverso le pubbliche dichiarazioni dell’arbitro. Ora lo scommettitore sa che il dolo e l’errore del direttore della gara, ai fini del concorso pronostici, non potrà esplicare alcuna influenza.

Ma nel 1947 il dott. Buono, cui erano familiari cognizioni di diritto, era nel giusto ritenendo che la sua scommessa riguardava il risultato, pubblicamente conseguito sul terreno del gioco, di una partita che avesse avuto determinati requisiti di regolarità, o meglio i requisiti di esistenza. E il contenuto dei resoconti pubblicati dai giornali sportivi costituivano dei «dati obiettivi», dal Tribunale esattamente intuiti, che giustificavano e sorreggevano i suoi reclami e le azioni da lui intentate. Rimarrebbe ad accertare se in effetti la pretesa irregolarità della partita Lazio-Inter, disputatasi allo stadio di Roma il 19 ottobre 1947, si è verificata.

Ma qui occorrono delle precisazioni in fatto e delle indagini di diritto.

Si era l’appellante dott. Buono in prime cure offerto di provare, a mezzo del Commissario di campo sig. Frola Francesco e dei redattori sportivi Bruno Roghi ed Alberto Cicerchia, che la gara fu interrotta dall’arbitro tre minuti avanti la scadenza dell’inderogabile tempo regolamentare.

Tale proposta non è stata invece rinnovata in questa sede. Anzi nella citazione di appello si legge: «Il sottoscritto accetta la decisione del Tribunale di Rovigo per quanto riguarda la competenza per territorio, quella funzionale e l’ammissione pacifica che la gara è durata tre minuti primi di meno, il che rende frustranea la già dedotta prova per testi ». Ora non è esatto che la sentenza impugnata abbia ritenuto per incontroversa la circostanza del minor tempo di durata della partita. Risulta, comunque, che tanto il Coni, quanto la Sisal, negli scritti difensivi di primo grado, hanno solo in via di ipotesi ammesso che la gara potesse avere avuto una durata inferiore a quella regolamentare, per dedurne, in tale eventuale ed ipotetico caso, la infondatezza delle pretese avversarie.

In diritto va esaminata la eccezione sollevata dal Coni, secondo il quale sarebbe inibito a questa Corte scendere a siffatta indagine essendo stata la partita Lazio-Inter irrevocabilmente convalidata dalle competenti autorità giurisdizionali sportive. Il riesame in questa sede potrebbe portare, secondo il Coni, ad una decisione contrastante con il provvedimento definitivo degli organi sportivi: donde un difetto di giurisdizione, in materia, dell’autorità giudiziaria.

La tesi è quanto meno eccessiva.

Il Comitato olimpico nazionale italiano, che organizza e potenzia lo sport nazionale e deve indirizzarlo verso il potenziamento atletico con particolare riguardo al miglioramento fisico e morale della razza, assolve certamente un compito di vitale interesse nazionale, che pienamente giustifica la natura di ente di diritto pubblico riconosciutagli con la legge 16 febbraio 1942 n. 426.

Ma si parla impropriamente di «giurisdizione» quando si allude al potere che la Federazione e gli altri organi sportivi, controllati dal Coni, hanno di risolvere le questioni insorte nello svolgimento di manifestazioni sportive. Soltanto la vera e propria giurisdizione, essendo una unica, non può patire contrasti di sorta.

Un conflitto fra decisioni dell’autorità giudiziaria e pronuncie dell’autorità sportiva è inconcepibile, perché mentre quella tutela diritti soggettivi, questa tutela interessi sportivi. Opera l’una nel mondo giuridico, l’altra nel mondo sportivo: se l’una ritiene che una gara si è svolta regolarmente e l’altra lo nega, le diverse finalità, cui le due funzioni tendono, escludono ogni possibilità di contrasto. Resterebbe il diverso, contraddittorio contenuto delle due pronuncie: ma, sino a quando la Carta costituzionale non sarà modificata, la funzione di tutelare i diritti morali e patrimoniali del cittadino, dovunque e comunque lesi, della quale è integralmente ed esclusivamente investito il giudice, rimane prevalente rispetto alla affermazione di semplici interessi sportivi.

Obiezioni avrebbe il Coni potuto sollevare circa i requisiti della prova idonea a contrastare le dichiarazioni dell’arbitro con riguardo al fatto che a lui, quale unico cronometrista della partita, è affidata una tale e quale testimonianza strumentale. Nel rapporto arbitrale che è tenuto, nel più breve tempo possibile, a compilare circa lo svolgimento della partita che dirige, egli deve registrare (prendere nota), mentre accadono, per assicurarne la veridicità, i fatti del gioco e perciò anche le circostanze di tempo, nelle quali si svolge. Intervenendo nella redazione di quel documento, egli, rispetto al contenuto di esso, è testis qualificatili.

La sua è dichiarazione di verità, della quale l’autorità sportiva si deve appagare (forse è da ciò nato il mito della cosiddetta infallibilità dell’arbitro). Non è pubblico ufficiale, e quindi alla sua dichiarazione non si può riconoscere valore probatorio assoluto fino a querela di falso. Certo è, però, che tale dichiarazione può essere contrastata non da una semplice prova su fatti pertinenti, ma da una prova che ne concreti la falsità. Sotto questo profilo si può in un certo senso dire che, solo quando l’arbitro abbia agito con dolo, un controllo del suo operato è possibile. Ma proseguire non mette conto, perché, come si è detto, una prova dall’appellante non è stata offerta.

Per questi motivi, ecc.

Il Foro Italiano, Vol. 73, 477, 1950