Mi perdonerete se questa volta parlo di me un po’ più del solito, ma l’occasione è assai ghiotta.
Di tanto in tanto, mi capita di incaponirmi con idee bislacche (come per esempio la conduzione di questo blog). Alcune volte queste idee sono costituite da attività para-sportive, paragonabili a imprese marziane nella misura in cui sono condotte da un avvocato pergiunta neanche in formissima. Dopo la maratona (ne ho fatte due, e con tempi biblici, prima di appendere le scarpette da corsa al chiodo), l’impresa più bella ed emozionante, e matta, e che non rifarei mai, è stato un viaggio in bicicletta da Piazza Duomo a Milano allo Stadio Partenio di Avellino l’estate del 2017 (direzione curva sud per vedere Avellino-Brescia).
Ci ho messo 7 giorni (durante i quali pedalavo) e 6 notti (durante i quali dormivo e digerivo i chili di riso che mandavo giù a cena). Ho attraversato l’Italia fendendola con la mia bici da cicloturismo acquisita per l’occasione a velocità anche qui infima ma sufficiente per permettere di coprire in tempo (in tempo per la partita eh) i 900 km del tragitto e di godere al contempo delle bellezze del paesaggio. Quanti bei ricordi e che gioia immensa.

Il mio viaggio, agosto 2017
Ho superato la pianura padana, raggiunto le valli di Comacchio, mi sono commosso nel vedere da lontano la ruota di Mirabilandia, ho attraversato la città di Ravenna, ho capito che ero impazzito quando ho visto l’Adriatico e ho toccato la sabbia. Mi sono fatto tutte le città una dietro l’altra, divertendomi a chiedere assurde indicazioni stradali (per esempio dalle parti di Ravenna chiedevo: “scusi per Giulianova?“), e calando giù da Cervia a Vasto passando per Cesenatico, Rimini, Riccione, Cattolica, Gradara (maledetta salita), Pesaro, Fano (bellissima ciclabile sul mare), Senigallia, Ancona (che paura nei pressi del porto e stramaledettisimo Conero), Civitanova Marche, San Benedetto del Tronto, Giulianova (sempre pedalando come un folle), Montesilvano, Pescara (bellissima ciclabile in salita), etc. A Vasto ho tagliato verso il nulla e ho preso preso qualche km un passaggio su un furgoncino di un pannocchiaro con la gamba ingessata perché avevo paura di restarci secco sulla Bifernina. Poi felicemente a Benevento e poi Avellino dove sono venuti a prendermi amici e poi allo Stadio dove mi ha accolto la squadra con tanto di maglietta celebrativa (juoah!).
(prendo fiato)
Durante tutto questo incommensurabile percorso sono stato sempre da solo, io e la mia bicicletta.
Non la mollavo un minuto, e la notte me la portavo pure in stanza, in albergo e ci dormivo assieme (a volte con il consenso del titolare a volte di soppiatto): col cavolo che gliela lasciavo lì in garage, o in cortile, o peggio ancora legata in strada. Avevo una catena bella tosta – almeno così mi convincevo – ma proprio non mi fidavo. E anche durante la giornata, quando dovevo fermarmi per mangiare, bere, o tutto il resto, non mi staccavamo mai dal velocipede.

la mia bici temporaneamente, e pericolosamente, incustodita
Una volta sono entrato in un supermercato portando la bici a mani nella corsia delle bevande energetiche, e mi ha preso la sicurezza mettendomi alla porta. Un’altra volta l’ho portata fin dentro un bagno mettendola non vi dico dove. Altre volte attaccata al tavolo del ristorante, come fosse un cane docile accoccolato al padroncino (la scusa del cane l’ho usata sempre, soprattutto nel supermercato: “se fate entrare i cani, che problemi vi dà una bicicletta?” , ma non ha funzionato).
Ovviamente, temevo che qualcuno la rubasse. E non era poi tanto per la bici in sé, quanto per il fatto che poi come avrei fatto a completare la mia impresa?
Oh pedalatori? Non temete forse anche voi il furto di bici? Peggio di un fosso, di una caduta (ok, dipende..), di una foratura, di una strada contromano, dei sanpietrini!
A Milano hanno trovato qualche giorno fa un deposito di bici rubate. Erano ammassate in cima a un palazzo di Cinisello, una sull’altra sul tetto. E pare che vi siano più presunti aspiranti legittimi proprietari che biciclette, e di bici – dalle foto – ce ne sono tante.
Io non vorrei mai che la mia bici finisse lì, in quell’orribile cimitero di velocipedi fantasma. Ne ho una paura immensa. Tanto che, dopo il mio viaggio – provatissimo soprattutto nella volontà – dismessa l’attività sportiva, fatico ad affacciarmi nel cortiletto di casa, per la paura di non trovarla più lì.
Anche perché poi si sa queste cose come vanno a finire, mi rubano la bici e poi? Al massimo posso farmi giustizia da solo, rubandone un’altra a mia volta. Vi immaginate ad andare a fare denuncia? Il PM che apre il fascicolo? E chi ci crede.
Mica siamo nei solerti anni ’40, quando per un furto di bicicletta si arrivava fino in Cassazione!?
Leggete questa sotto: a Siracusa, un militare della MVSN (milizia volontaria per la sicurezza nazionale) – Salvatore Brausone – aveva appoggiato la sua bicicletta davanti l’entrata dell’ufficio postale, dove era andato per ritirare la corrispondenza da distribuire poi ai commilitoni. Non l’aveva legata (d’altronde quelli erano tempi in cui si dormiva con la porta aperta, quindi c’era da star tranquilli). Passava di lì un imbianchino, tal Salvatore Trovato, che facendo onore al suo nome, reperì la bici incustodita e se la portò via. Il processo giunse in Cassazione, al di là della scontata condanna, per una disquisizione sulla aggravante della “esposizione alla pubblica fede”, che stranamente si applicava pacificamente al furto di automobili incustodite, ma non a quello di biciclette.
Io stasera vado a controllare se c’è, comunque, perché non mi fido più.
Buona lettura.

massima
La Corte : — Il Pretore di Siracusa, con sentenza 12 gennaio 1940, condannò l’imbianchino Trovato Salvatore a mesi due di reclusione ed a lire 800 di multa siccome colpevole di furto semplice, perchè il 22 giugno 1939 aveva portato via una bicicletta che il milite della M.V. S.N. Brausone Salvatore, aveva appoggiato al muro presso l’ingresso della posta centrale di quella città, essendosi egli, che con quel mezzo era arrivato, dovuto recare nell’interno dell’ufficio a ritirare la corrispondenza diretta alla 169a legione, cui apparteneva. Definì il fatto nei termini della denuncia (art. 624, parte prima, cod. pen.), ma il P. M. presso il Tribunale propose appello contro la sentenza, e sostenne che ricorreva l’aggravante speciale del n. 7 dell’art. 625 stesso codice, essendo stato il fatto commesso su cosa (la bicicletta) nelle ricordate circostanze esposta per consuetudine alla pubblica fede, e perciò avrebbe dovuto il Pretore, giusta l’autonoma pena stabilità, dichiarare anche d’ufficio la propria incompetenza per materia.
Il Tribunale di Siracusa (sentenza 14 marzo 1940), non credette seguire il criterio interpretativo proposto con la impugnazione, disse che l’invocata consuetudine non esisteva, che tanto meno poteva parlarsi di necessità, che il milite ciclista era stato imprudente, e confermò quindi la impugnata decisione.
Lo stesso P. M. ricorre contro la sentenza del Tribunale, e ripropone la questione con larga copia di argomenti, e specialmente fondandosi su quel mezzo della circolazione stradale largamente diffuso, intende dimostrare che il Giudice di merito ha fatto erronea applicazione della legge penale, perchè nei termini fissati l’aggravante sussisteva; si aveva la esposizione della cosa per consuetudine alla pubblica fede.
Il ricorso merita accoglimento.
La Corte di Cassazione, che ha ufficio soprastante di vigilanza, controllo e correzione, deve conoscere dello stato di diritto che nell’uniforme ripetersi dei fatti umani va a formarsi per rappresentare la concreta e palpitante realtà della vita, alla quale il Giudice mai deve rimanere estraneo. La risoluzione del presente ricorso appartiene dunque all’ordine del giudizio superiore invocato nell’orbita dell’art. 524 del codice di rito; il quesito non si restringe all’apprezzamento di un fatto e delle circostanze che lo compongono nell’orditura del procedimento istruito e valutato dal giudice del merito, ma superando il caso particolare, tocca una situazione giuridica generale.
Si deve dunque conoscere di un modo di operare e di procedere, e si deve anche sapere se esso per lungo uso diventato ordinario ed abituale, non siasi a poco a poco dalla generalità degli abitanti accettato per buono, osservato e seguito, fino a raggiungere una efficacia riconosciuta dall’ordinamento legislativo ed accettato anche agli effetti del positivo diritto penale.
Così si accerta una comune condotta che essendosi radicata non può sfuggire alla diretta osservazione e si presenta la consuetudine, che il legislatore ha tenuto presente anche pel reato, e nel vigente codice va a formare in ordine al furto (il primo dei delitti contro il patrimonio) una speciale circostanza di aggravamento, in quanto viene offesa la pubblica fede alla quale le cose rubate sono esposte. Nozione questa amplissima che deriva dalla fiducia (avere fede) intesa in senso universale, non ristretta ai rapporti verificatisi fra due o più persone, e neppure determinato dai particolari motivi di tutela contro i delitti di falsità dal titolo VII nei diversi capi di cui si compone, in cui la fede pubblica viene sotto più aspetti protetta, ma allargata senza designati limiti, una fiducia insomma che si ha, esponendo la cosa, ossia ponendola all’aperto, alla vista altrui ed in guisa che chiunque abbia maggior facilità di prenderla, cioè di compier atto d’impossessamento.

come non citarlo..
Il fatto della esposizione è considerato al n. 7 dell’articolo 625 del codice, per tre motivi diversi: la necessità, la consuetudine, la destinazione, e lasciata da parte quest’ultima che non interessa, devono restare ben distinti gli altri due ed è non trascurabile errore della sentenza impugnata aver di entrambi indifferentemente parlato.
La necessità che costringe, va bensì apprezzata men rigidamente dello stato di necessità costituente causa che discrimina colui che ha commesso un fatto quale reato preveduto. Dovrà valutarsi in relazione dunque a particolari contingenze che possono aver indotto alcuno a fidarsi della probità altrui, e se la necessità basta da sola a giustificare l’aggravante, altrettanto deve dirsi della consuetudine, quando, secondo la formulata proposizione, il lungo uso diventato ordinario ed abituale, con la generale sua osservanza abbia fondamento in un motivo legittimo.
Un tal motivo non si può dunque confondere con l’altro, perchè senza che ricorra la necessità, la espressa norma della legge con un criterio di equiparazione si è riferita alla consuetudine, la quale nelle infinite manifestazioni della vita va a consolidarsi e segna il risultato di quel che è più utile e più giovevole alla vita stessa.
Sulla sola utilità dunque potrà legittimamente ritenersi fondata la consuetudine, alla quale il n. 7 dell’ar ticolo 625 si richiama, e poiché alla osservazione diretta del Giudice s’impone una condotta che è pratica generalmente seguita, non può essere approvata la contraria statuizione della sentenza.
Il Giudice, chiudendo gli occhi alla realtà, si è allontanato dalle norme comuni di esperienza, e non si è accorto che il fatto del milite, il quale aveva momentaneamente lasciata la bicicletta per attendere ad una incombenza del suo servizio, altro non era che un segno fra gli innumerevoli della fiducia, che usando di quel mezzo, si suole riporre nel pubblico, cioè nei singoli appartenenti alla vasta collettività in cui l’uso è penetrato. Che se i ladri ne profittano, e se alcuno degli utenti di quel mezzo, semprechè gli sia possibile, ricorre ad opportune cautele (nella sentenza si ricordano le catenelle) ognuno comprende che non possono essere queste serie ragioni per negare la consuetudine; che tuttavia sussiste, e più vivo anzi sarà inteso il bisogno di riaffermare la volontà della legge e reprimere con l’adeguata sanzione, la pericolosa forma di delinquenza, facendo persuaso il ladro del maggior rigore col quale sarà punito, per aver rubato la cosa a pubblica fede esposta.
Ma poiché in argomento si è fatto capo al principio superiore della utilità, non deve trascurarsi (e vi accenna anche il P. M. ricorrente) che il velocipede, macchina del moto ormai antica, che riceve impulso con un meccanismo semplice mosso dai piedi, è il veicolo più intensamente diffuso perchè di più facile governo, più economico e più utile infine a superare nell’intenso movimento della circolazione, specialmente nei centri abitati, le brevi distanze per rapidi spostamenti da un punto all’altro. Ed essendo d’uso universale, incoraggiato anche da provvedimenti di esenzione o di mitigazione fiscale, la bicicletta è in realtà un mezzo d’incremento del lavoro in quanto serve (si starebbe per dire, è indispensabile) al lavoratore, al contadino, al bracciante, all’artiere, all’impiegato, le cui mansioni esigono un servizio di continuo movimento.
La sentenza fra l’altro volle stabilire un paragone con l’automobile ed a proposito della consuetudine, per essa senza contrasto riconosciuta, si richiamò alle esigenze della vita odierna, poiché occorre avere a continua ed immediata disposizione il mezzo di trasporto. Però il Tribunale di Siracusa che aveva, come s’è detto, negato la consuetudine per la bicicletta, sol perchè sarebbe di facile custodia, con un ragionamento che non distingueva fra il motivo della necessità e quello della consuetudine, non si è accorto che quella esigenza non solo ugualmente ricorre per tutti i mezzi di trasporto, ma specialmente per il veicolo (il velocipede) che meglio serve ad interrompere un percorso e dopo breve sosta a riprenderlo, e diventa estremamente sensibile in confronto di chi ne usa per ragioni di lavoro, come l’esperienza della vita insegna.
Per questi motivi, cassa, ecc. ecc.
(Il foro Italiano, 66, 1941, 219)