20. Come una Novella di Pirandello (1921)

Giudice istruttore: — Restivo Francesco di Carmelo della classe 1890 nato in Palma Montechiaro soldato nel 223 reggimento fanteria fu preso prigioniero il 24 ottobre 1917 nel fatto d’armi di Montenero. Mori presso il nemico l’8 maggio 1918 e la di lui morte venne comunicata alla famiglia a cura dell’autorità militare.

Dopo tale comunicazione alla vedova del Restivo, Angela Licata, fu liquidata la pensione.

Il 1° dicembre 1920, giorno di mercoledì, si presentò in casa dei genitori del Restivo lo imputato Bellassai Giorgio, il quale era arrivato in Palma il 30 novembre, cioè il giorno prima, ed aveva preso alloggio nell’albergo Sole qualificandosi appunto per Giorgio Bellassai di Ragusa.

Ai parenti del Restivo disse che portava notizie del loro congiunto, il quale era vivo e l’indomani, giovedì, lo avrebbero visto arrivare. Aggiunse però che la certezza dello arrivo del Francesco Restivo l’avrebbe telegrafato l’indomani da Licata dove prima doveva recarsi. Uguale promessa il Restivo fece ad altre famiglie di militari, morti, dispersi o prigionieri, sia in Palma che a Camastra. In quest’occasione il Bellassai chiese ai Restivo mezza lira che, secondo lui diceva, gli mancava per pagare il biglietto ferroviario per recarsi a Licata.

Gli venne offerto del denaro da parecchi, ma egli accettò solo L. 5 dategli dalla sorella del Restivo, a nome Domenica, la quale erasi fatto sfuggire che il Bellassai, nei lineamenti del viso, rassomigliava al di lei fratello Francesco. Il Bellassai partì da Palma la sera stessa del detto mercoledì ed alla stazione lo accompagnò un fratello del Restivo, a nome Giuseppe, il quale presentò il Bellassai a certo Crista Salvatore, appuntato delle guardie di finanza, residente in Licata, che quella sera da Palma ritornava a Licata. Ivi giunti il Crista accompagnò il Bellassai in un albergo.

L’indomani il Bellassai andò a trovare il Crista e da lui si fece accompagnare in casa della vedova del Restivo, la quale abitava in Licata in casa del padre. Alla Licata Angela, il Bellassai, disse che portava notizie del di lei marito, il quale era vivo e quanto prima lo avrebbe visto privare.

Discorrendo col Bellassai la vedova del Restivo (nella quale l’apparizione misteriosa ed inaspettata di quell’uomo e le notizie da lui portate dovettero produrre un turbamento ed uno smarrimento dello spirito) si lasciò sfuggire che il Bellassai rassomigliava al di lei marito e giunse perfino a chiedergli se per avventura non fosse davvero lui con le parole : «ma chi sì tu Ciucciu?».

Il Bellassai in quel primo momento rispose di no e confermò che egli era Giorgio Bellassai, ma uscito dalla casa della Licata, egli, che certamente doveva avere il suo piano prestabilito di farsi credere il vero Restivo, visto che aveva fatto colpo sull’animo della vedova, capì che quello era il momento propizio di tentare il passo decisivo, e rivoltosi al Crista gli disse: «mia moglie mi ha riconosciuto».

Il Crista rimase sorpreso ed incredulo, perchè a parte la dissomiglianza nel fisico, il Bellassai non sapeva ricordare nulla della vita del Restivo e spiegava sì l’una cosa che l’altra col fatto che la prigionia e le peripezia incontrate per sfuggirvi, come lo avevano trasformato nel fisico, così pure gli avevano indebolito le facoltà mentali.

Ritornati subito, il Bellassai ed il Crista, della Licata, il Crista comunicò a costei la rivelazione fattagli dal Bellassai ed i suoi dubbi in proposito. La Licata, disgraziatamente, pervasa da un vero stato di sonnolenza e di annebbiamento mentale credette, o meglio s’illuse, di riscontrare nel Bellassai dei segni che a lei sembrarono decisivi per ritenerlo davvero suo marito: motivo per cui invece di respingere l’impostore, si stabilì di recarsi a Palma per ivi aver luogo il riconoscimento da parte dei genitori e parenti del Restivo Francesco.

La sera dello stesso giovedì giunsero in Palma e recatisi in casa dei genitori del Restivo nessuno lo riconobbe, nonostante che la Licata affermasse di averlo riconosciuto per il vero suo marito e sebbene si riscontrasse qualche segno più o meno insignificante che anche il Restivo aveva: quale un dente mancante di un piccolo frammento, un neo ad una spalla, una cicatrice ad una mano ed una sotto il mento.

Di fronte alla incredulità e perplessità nel riconoscerlo da parte del Restivo il Bellassai assunse un atteggia mento tragico ed esclamò : «vedete ! un padre ed una madre che non riconoscono il proprio figlio ! Datemi le mie robe chè vado a buttarmi a mare!».

Questa uscita di quel ciurmatore ottenne l’effetto sperato, perchè si fu allora che il Restivo Carmelo, padre del vero Restivo Francesco, finì con l’abbracciare il Bellassai come figlio e gli domandò perfino perdono per non averlo riconosciuto prima.

Dopo questo passo falso del Restivo padre seguì una vera suggestione collettiva (la scena si svolse alla presenza di numerose persone, vicini e parenti) e

sebbene vi fossero parecchi che sostenevano che quell’uomo non era Restivo Francesco, pure si finì col passare da equivoco in equivoco, da illusione in illusione, il potere di critica rimase in tutti annullato, qualunque inezia assunse un valore decisivo, l’inganno aveva trionfato e la Licata Angela cominciò a convivere maritalmente con l’intruso Bellassai come se questi fosse il suo vero marito.

Subito si provvide per la esazione del premio di congedamento, del pacco vestiario e dell’indennità di prigionia presso il deposito dell’86 fanteria in Palermo ed inoltre si iniziò la pratica per ottenere la liquidazione della pensione in favore del preteso redivivo Restivo Francesco, pensione che è stata già liquidata, però il relativo libretto è stato sequestrato.

Con la coabitazione però del Bellassai con la Angela Licata, quest’ultima non poteva tardare ad accorgersi che quell’uomo non era suo marito e naturalmente cominciò in lei la ribellione; e quando finalmente lo stesso Bellassai le confessò che non era il di lei marito Restivo Francesco, ma Giorgio Bellassai, la Licata si decise a denunziarlo, donde l’arresto del Bellassai ed il presente procedimento.

Che l’imputato è Giorgio Bellassai e non Restivo Francesco è certo nel modo più assoluto e tale da non essere lecito discutere. Solo un’aberrazione mentale o la mala fede potrebbe sollevare il dubbio in proposito.

In verità mai avrebbe dovuto essere possibile il dubbio sull’identità personale dell’imputato e scambiarsi nientemeno col Restivo Francesco. Ma è purtroppo una realtà ciò che astrattamento potrà sembrare impossibile.

Ricercare per l’azione di quali arcane ed impossibili cause (cooperanti con l’attività criminosa dell’imputato) siasi potuta determinare nella Licata Angela quella situazione psicologica anormale, quello stato di oscuramento della coscienza, della volontà, di uttte, insomma, le facoltà intellettive, per cui essa finì con l’illudersi che il Bellassai fosse suo marito esorbita dal nostro compito.

A noi interessa stabilire, che fu la Licata Angela a cadere per la prima nel deplorevole errore, attrattavi in un primo momento dal solo contegno misterioso di quel portatore di strane notizie e poscia della di lui attività positiva costituente un vero e proprio artificio e raggiro.

L’errore in cui venne irretita la Licata acquista speciale importanza e gravità, perché esso agì come la precipua, se non la sola, causa determinante l’inganno in cui più tardi furono travolti i genitori e gli altri prossimi congiunti del vero Restivo. Il Bellassai asservita al suo scopo, con l’inganno, la Angela Licata, si giovò di essa come di una complice involontaria nell’indurre nello stesso errore sia i congiunti del Restivo, sia le autorità militari per la consumazione delle truffe in danno degli uni e dell’erario dello Stato.

Le osservazioni della Licata Angela, che quell’uomo era il suo Ciccio ebbero un’azione decisiva presso i congiunti del Restivo, i quali, è bene rilevarlo, spontaneamente non riconobbero affatto il Bellassai per il loro congiunto Restivo Francesco.

Essi si adattarono ad accettarlo per tale in seguito alla pressione che su di essi esercitò il passo compiuto dalla Licata, ormai pronunziatasi, davanti una folla di persone, che quello era suo marito Francesco Restivo. Era poi umano, in una materia così delicata, e che tocca i più intimi sentimenti affettivi e famigliari, che una volta compiuto il grave atto di ammettere in casa quell’intruso come il vero Restivo Francesco, dopo quello avere vissuto maritalmente parecchi mesi con la Angela Licata, ed avere dormito parecchie notti nella stessa stanza in cui dormiva la sorella e la zia, nubili, del Restivo, era umano, si diceva, che i congiunti di quest’ultimo opponessero una così tenace resistenza a riconoscere l’errore.

Riusciva e riesce loro ben tormentoso arrivare a tale riconoscimento che equivale ammissione di fatti per essi disonoranti. Da certe situazioni irregolari, una volta cacciativisi, non è facile uscirne.

E infatti, i congiunti del Restivo, ossessionati dal pensiero che confessare l’errore in cui furono attratti significa riconoscimento di fatti obbrobriosi per la moglie del Francesco Restivo, e quindi disonorevoli anche per loro, hanno quindi indotto una numerosa schiera di testimoni, più che provare ciò che essi stessi non credono, certo per giustificare che se essi caddero in errore in ciò non furono soli e sopratutto per alimentare il dubbio del vero essere dell’imputato.

Ed allo stesso fine tende la storiella che con pietosa menzogna i fratelli del Restivo, Salvatore e Giuseppe, sono venuti a narrarci di certi pretesi ricordi che il Bellassai avrebbe saputo riferire, ricordi che solo il vero Restivo poteva conoscere.

Di fronte alla certezza assoluta che l’imputato è Giorgio Bellassai, sia tale storiella (anche se vera) dei ricordi che l’imputato avrebbe rievocato, però, si noti, non in presenza di tutti ma da solo a solo ai fratelli Giuseppe e Salvatore Restivo, sia le deposizioni di tutto l’enorme stuolo di testi indicati dai genitori del Restivo, diventano qualche cosa di irrilevante e si risolvono in un inutile logomachia per farci conoscere dalle circostanze inconcludènti o dei pseudi riconoscimenti, o per apprenderci una serie di equivoci, di illusioni e di prese in giro da parte del Bellassai. Il quale, dimostrando di possedere poteri mnemonici saldissimi ed una lucidità di mente meravigliosa, ha avuta l’abilità di far credere, e fin dal primo momento sino ad oggi, di saper riconoscere persone e ricordare circostanze utilizzando tutto quanto dagli altri o inconsapevolmente o involontariamente ha avuto suggerito e raccontato.

Pertanto la maggior parte di tali testi si è creduto superfluo escuterla.

Siccome sopra si è detto, l’azione spiegata dalla Licata Angela ebbe una efficacia decisiva anche e specialmente nelle truffe consumate dal Bellassai in danno dell’Amministrazione militare. Senza l’intervento della Licata Angela, l’imputato difficilmente avrebbe potuto conseguire lo scopo. Se si avessero elementi probatorii per stabilire che la Licata abbia agito in mala fede (mentre allo stato tutto fa ritenere il contrario e che essa piuttosto che colpevole è una disgraziata) potrebbe ben dirsi, che la principale artefice delle frodi commesse dal Bellassai in danno dell’Erario dello Stato è stata la Angela Licata.

Ma date le attuali risultanze processuali deve invece concludersi, che costui pur apparendo la miglior alleata del Bellassai nell’ordire frodi, in definitiva è la prima vittima dell’artifizio e del di lui raggiro.

E venendo all’esame dell’elemento oggettivo integratore del reato di truffa, specie nei rapporti della Licata Angela e dei parenti del Restivo, e d’uopo rilevare, che solo ad un esame affrettato e superficiale potrebbe sembrare grossolano il raggiro posto in essere dal Bellassai.

Certo le differenze somatiche fra l’imputato ed il vero Restivo sono gravissime. Basti dire che il Bellassai è otto centimetri più corto ed ha una circonferenza toracica nove centimetri più stretta in confronto al Francesco Restivo. Nè questa ed altre differenze (piccolezza delle mani ed assenza assoluta in esse di callosità proprie dei contadini, analfabetismo, mentre il vero Restivo sapeva leggere e scrivere, ecc.) potevano spiegarsi con le pretese sofferenze della prigionia.

Non solo, ma il parlare del Bellassai è del più autentico e genuino ragusano, tanto diverso dal parlare dei palmesi. Nè poteva ammettersi che il vero Restivo avesse potuto acquisire, ed in modo così fortemente radicato e con tutte le sfumature e con la precisa inflessione di voce, il dialetto ragusano, in un solo anno di permanenza a Ragusa. E d’altra parte anche questo fatto della pretesa permanenza per un anno a Ragusa, da parte del preteso Restivo, dopo che questi fosse riuscito a ritornare in patria per essere sfuggito dalla prigionia o dalla dispersione, mentre non era capace di spiegare l’acquisizione del dialetto ragusano, costituiva da sola una stranezza tale che doveva bastare a mettere in sospetto ed a far respingere l’assunto dell’impostore.

Era fin troppo evidente, che se il vero Restivo fosse riuscito a ritornare in Sicilia, reduce dalla prigionia o dalla dispersione, certamente non se ne sarebbe andato a passare un anno di villeggiatura a Ragusa, ma sarebbe corso a riabbracciare i suoi cari a Palma ed a Licata. E non è il caso di continuare nell’analisi. In sintesi può dirsi che tutto quanto il Bellassai assumeva non avrebbe dovuto resistere alla critica più superficiale ed avrebbe dovuto essere respinto.

Ma se tutto ciò è innegabile, non però men vero, che il concetto di artifizio e di raggiro, costitutivo del reato di truffa, non è qualcosa di fisso, di assoluto che debba coincidere perfettamente con uno schema astratto, oggettivo performato.

Esso è invece un concetto eminentemente relativo, che deve essere valutato ed inteso con senso di relatività in rapporto e con riferimento alle persone verso le quali il raggiro o l’artifizio viene esercitato, allo ambiente ed al momento storico in cui si esplica.

Or a questo proposito si può con sicura coscienza affermare, che è difficile incontrare persone più bonaccione, credenzone ed ingenue dei componenti la famiglia del Restivo Francesco. E lo stesso può dirsi della vedova del Restivo, Licata Angela.

E se a ciò si aggiunga il gran parlare, e perfino il favoleggiare, che si è fatto intorno a fatti strani, prodigiosi di militari trovatisi in combattimento, quali ad esempio casi di perdita della favella, della memoria, della ragione, di ritorno di militari (già dati per morti, prigionieri o dispersi) in condizioni pietose e da essere ridotti quasi irriconoscibili, e finalmente la peculiare disposizione d’animo dei congiunti dei militari morti, prigionieri o dispersi in combattimento, tutta impregnata della speranza incoercibile e sempre risorgente di vedere riapparire le persone amate,

si dovrà coscienziosamente riconoscere che il raggiro del Bellassai venne attuato in condizioni favorevolissime e tali da far accettare per vedere senza critica o adeguato controllo le cose più inverosimili ed assurde, e quindi da riuscire idoneo allo scopo e ad integrare il reato di truffa. Né deve trascurarsi, che un’altra circostanza che favorì il Bellassai nell’attuazione del suo piano criminoso è stato il suo abito corporeo smunto e macillente e che, pur senza esserlo, sembra quello di un tisico e quanto meno di persona affetta da grave deperimento organico acquisito, mentre poi è in lui congenito.

Più idoneo allo scopo truffaldino riuscì il raggiro presso le varie autorità militari, perché questa non conoscendo il vero Restivo non potevano notarne le rilevanti differenze somatiche e personali.

D’altra parte la pretesa della vedova del Restivo la quale pur essendo munita del libretto di pensione nella detta qualità di vedova, attestava che il Bellassai era suo marito Restivo Francesco decise della riuscita della truffa del premio di congedamento, del pacco vestiario, della identità di prigionia, della liquidazione della pensione di 2^a categoria e del pagamento, in attesa di tale liquidazione, degli assegni giornalieri in ragione di lire dieci al giorno.

Dunque nessun dubbio che tutti concorrono gli elementi oggettivi integratori del reato di truffa.

E lo stesso dicasi, essendo per altro di palmare evidenza, per gli altri reati di: a) falsa attestazione continuata in atti compiuti da pubblici ufficiali; b) falsa attestazione continuata in atti dell’autorità giudiziaria; e c) porto abusivo del distintivo di caporal maggiore.

Ed ora veniamo all’esame dell’elemento soggettivo.

Che il Bellassai abbia agito con dolo non c’è dubbio. Ma potrebbe chiedersi: è egli moralmente imputabile?

Il giudice istruttore di Palermo nella sua sentenza del 16 agosto 1920 con criterio troppo semplicista e superficiale, e senza neanche aver visto ed interrogato il Bellassai (l’interrogatorio risulta raccolto dal P.M.) lo prosciolse dall’imputazione di truffa qualificandolo uno squilibrato e ritenendo che il Bellassai andasse portando notizie alle famiglie di militari morti, dispersi o prigionieri per «iattanza e stupida vanteria».

I fatti di cui ci occupiamo stanno a dimostrare l’erroneità di un tale giudizio. Si può, invece, essere ormai sicuri di potere affermare che il Bellassai, cosi a Ficarazzi, a Bagheria ed altrove come a Camastra, a Licata ed a Palma, si presentava quale apportatore di quelle notizie col piano prestabilito che la famiglia di qualche militare morto, disperso o prigioniero lo scambiasse per il proprio congiunto e così potersi assicurare di che vivere senza lavorare, cosa che in vita sua ha sempre aborrito. Ed il Bellassai, infatti, dando prova di intuito e di sagacia (altro che scimunito o squilibrato; capi che la famiglia in cui aveva fatto breccia e presso la quale poteva tentare il colpo audace era appunto quella del Francesco Restivo. Prima la sorella di costui, Domenica, poscia la vedova ebbero a manifestare al Bellassai che questi rassomigliava al Restivo. La Licata inoltre giunse per fino a chiederli «chi si tu Ciuocciu?». Evidentemente il Bellassai non ne volle di più per attuare il suo criminoso progetto, che, disgraziatamente per la sventurata famiglia del Restivo, doveva riuscirgli con una facilità e con un favore di eventi davvero impressionanti.

A parte la eloquente evidenza di tutto quanto ha operato il Bellassai, e che comprovano essere Costui tutt’altro che uno squilibrato, un idiota od uno scemo, noi Giudice abbiamo avuto agio di scandagliare e scrutare l’attività psichica dello imputato ed abbiamo potuto riportare il profondo e sicuro convincimento che il Bellassai è perfettamente sano di mente.

Non gli manca intelligenza ed anche astuzia; la memoria funziona benissimo e ragiona in modo abbastanza normale, siccome del resto può ragionare un analfabeta vissuto nei bassi fondi della sua natia Ragusa dove nel 1914 faceva il servitore, in una casa di tolleranza.

E il suo fisico veramente deficiente, la sagoma del suo corpo rachitico e specialmente il viso da idiota che contribuiscono a farlo ritenere tale senza esserlo. La personalità psichica del Bellassai però viene caratterizzata da alcune tendenze che lo rendono un tipo strano, bizzarro ed anche pericoloso perchè capace di commettere fatti costituenti reato; ma sarebbe, un errore ritenere che egli sia un infermo di mente nel senso clinico e giuridico (o medico-legale) in cui tale espressione deve intendersi.

Le tendenze caratteristiche del Bellassai sono: avversione al lavoro, vagabondaggio, menzogne, simulazione, fatuità.

La delinquenza di cui è capace il Bellassai è informata a tali tendenze. E’ una forma di delinquenza non atavica non evolutiva, cioè a base di frode e non di violenza, ma egualmente pericolosa e punibile. Appartiene a quella categoria di delinquenti abituali che commettono delitti, di regola non gravi ed in prevalenza contro la proprietà, per la tendenza in loro congenita al vagabondaggio e per la ripugnanza, anch’essa congenita, al la voro. In essi vi sono delle anomalie psichiche, ma esse consistono esclusivamente o principalmente in quella caratteristiche tendenze che li spingono al delitto.

Ed è infatti tutta una rete di simulazione e di menzogna ciò che il Bellassai ha operato per commettere reati di cui è imputato, e cosi del pari tutto quanto ha dichiarato durante l’istruzione del presente procedimento.

La vita da lui vissuta è stata sempre inspirata ed influenzata da quelle tendenze, le quali se per il passato lo portarono a commettere fatti costituenti bensì reato ma di lieve momento, questa volta invece lo hanno in dotto alla consumazione di un fatto gravissimo, che solo la superficialità od il cinismo, cogliendone soltanto il lato comico, potrebbe riguardare con indulgenza e mitezza. Accanto al comico nei fatti commessi del Bellassai ai danni dei congiunti del Restivo Francesco vi è un lato tragico di proporzioni non facilmente calcolabili,

perchè nessuno potrà mai valutare adeguatamente (e molto meno indennizzare) prima le ansie, le torture del dubbio sulla vera personalità dell’impostore, e poi lo strazio, e le amarezze della delusione e del disonore…

Per questi motivi, ecc.

(Il foro Italiano, 46, 1921, 329)